“Un giorno, per strada, una sconosciuta mi mise tra le braccia un neonato e mi lasciò accanto una valigia piena di contanti. Non avrei mai immaginato che, sedici anni più tardi, quel ragazzo si sarebbe rivelato l’unico erede di un impero miliardario…”

«Prendetelo, vi supplico!»
La donna mi spinse fra le mani una vecchia valigia di cuoio e, quasi nello stesso istante, mi porse il bambino.

Per poco non lasciai cadere la borsa con i dolci che stavo portando ai vicini di campagna.
«Mi scusi… cosa? Io nemmeno la conosco!»

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«Si chiama Michajlyk, ha tre anni e mezzo.» Le sue dita serrarono la mia manica fino a sbiancarle le nocche. «Dentro la valigia c’è tutto quello che serve. Non lo abbandonate, ve ne prego!»

Il piccolo si aggrappò alla mia gamba, con i suoi grandi occhi marroni rivolti verso di me. I riccioli chiari gli cadevano sulla fronte, e un graffio fresco gli segnava la guancia.
«Ma cosa state facendo? Non è un giocattolo! Ci sono le autorità, la polizia…»

«Non ho tempo! Non ho scelta!» La sua voce tremava di disperazione.

La folla di passeggeri ci spinse dentro il vagone. Quando mi voltai, la donna era rimasta sul binario, il volto nascosto fra le mani, le lacrime che le scivolavano dalle dita.

«Mamma!» gridò il bambino, correndo verso la porta, ma lo trattenni.
Il treno partì. La sua sagoma sparì nel crepuscolo.

Seduti su una panca di legno, Michajlyk si addormentò appoggiato alla mia manica, mentre la valigia mi gravava sul braccio come fosse piena di pietre.
«Zia, la mamma tornerà?» sussurrò.
«Certo, tesoro. Tornerà.»

Gli altri passeggeri ci osservavano incuriositi: una giovane donna con un bambino sconosciuto e una valigia sdrucita… uno spettacolo insolito.

Arrivati a casa, mio marito Pietro rimase pietrificato. «Masha, chi sarebbe questo?»
«Non “chi”, ma chi davvero. Ti presento Michajlyk.»

Mentre cucinavo il semolino, gli raccontai tutto. Pietro si grattò la barba, cupo. «Bisogna avvisare la polizia.»
«E dire cosa? Che ci hanno “regalato” un bambino su un binario?»

Aprimmo la valigia. Dentro non c’erano vestiti o giocattoli, ma pacchi di banconote legati con fascette bancarie. A occhio e croce, milioni.

Michajlyk intanto si era già ambientato: dormiva sul lettino pieghevole, seguiva me per casa, chiamava per nome le galline. La notte piangeva e cercava la madre.

Dopo poche settimane i documenti erano pronti: Michajlo Petrovic Beryozin, nostro figlio adottivo.
Alla gente raccontammo che era un nipote rimasto orfano.

Gli anni passarono. Michajlyk cresceva in fretta: a quattro anni sapeva leggere, a cinque contava senza errori. Al ginnasio i professori restavano sbalorditi dalla sua memoria e dalla pronuncia perfetta in inglese.

«Papà, perché tutti hanno una nonna e io no?»
«Perché non ci sono più da tanto tempo, figliolo.»

A quattordici anni vinse l’olimpiade di fisica, a sedici i professori di Mosca lo chiamavano «genio». Io, invece, lo vedevo ancora come quel bambino spaventato sulla banchina.

Poi, un giorno, arrivò una lettera senza mittente. Dentro c’era la verità: suo padre era il fondatore di un immenso fondo d’investimenti, e lui l’erede. La madre aveva inscenato la propria morte per salvarlo, lasciandolo a me perché aveva intravisto, in uno sguardo e in una fede nuziale, la certezza che l’avrei protetto.

Michajlyk tremava quando finì di leggere. «Voi siete i miei veri genitori.»

Gli anni seguenti furono un turbine: avvocati, parenti improvvisamente “riapparsi”, trasferimenti in città, una villa sorvegliata, giornalisti dietro i cancelli. Pietro aprì una fabbrica di mobili, io curavo la casa e l’orto, e Michajlo diventava un brillante investitore, facendo crescere il fondo ereditato.

Un giorno, davanti alla tomba della sua vera madre, lasciò un mazzo di rose bianche.
«Grazie — sussurrò — per avermi affidato a loro.»

E poi disse: «Creiamo un fondo per gli orfani. Perché anche altri abbiano una famiglia come la mia.»

Lo chiamammo “Piattaforma della Speranza”, finanziato con ciò che restava della famosa valigia.

E ogni volta che lo guardo, so che la scelta di quella donna disperata non fu un errore. Michajlyk non era un estraneo: era destinato a essere nostro figlio. Non per il sangue, ma per l’amore.

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