«Abbiamo tagliato i tuoi meli nella casa di campagna. Ci davano fastidio quando volevamo riposarci… e tanto tu non eri nemmeno lì!» mi dissero con noncuranza i miei familiari, mentre io, impotente, trattenevo a stento le lacrime.

«Pronto, Lena, quando arrivi?» La voce squillante di Svetka, moglie di Andrij, era fin troppo allegra per essere sabato mattina, alle otto.

Mi stiracchiai nel letto, ancora stordita dal sonno.
«Avevo pensato di venire la prossima settimana. Perché? È successo qualcosa?»

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«Nulla di grave,» rispose lei, e sentii un fruscio, come se avesse coperto il microfono con la mano. «Siamo già alla tua dacia con i bambini, ci stiamo rilassando un po’. Non ti dispiace, vero?»

Mi raddrizzai di colpo. Rilassarsi? Nella mia dacia?
«Svetka, io non vi ho invitati. E non ho lasciato le chiavi a nessuno.»

Lei rise. «Ma dai, siamo parenti! Andriuchka ricordava della chiave sotto la pietra vicino all’ingresso. Restiamo giusto una settimana e poi ce ne andiamo. I bambini sono al settimo cielo!»

Un gelo mi prese lo stomaco. Quella casa me l’aveva lasciata la nonna tre anni prima, era il mio rifugio, l’unico luogo in cui respirare davvero, soprattutto adesso che Maksym era partito per la rotazione in Siberia, senza alcun contatto per due lunghi mesi.

«Svetka, questa è casa mia. Non avevate alcun diritto…»

«Oh, piantala con le prediche! I bambini hanno fame, torno dopo. Vieni fra una settimana, tanto allora ce ne andiamo.»
E riattaccò.

Provai a richiamare: squilli infiniti. La seconda volta, mi chiusero subito la linea. I messaggi letti ma ignorati. Passai la giornata in ansia: andare subito? Ma il giorno dopo avevo la presentazione più importante della mia carriera, quella che mi ero preparata da mesi. Rinunciarvi avrebbe significato dire addio alla promozione.

Così decisi di resistere. Cosa potevano mai fare in sette giorni? Barbecue, bagni al fiume… l’unica mia speranza era che non danneggiassero la casa.

La settimana fu un tormento. La presentazione andò benissimo, il capo accennò persino a un bonus, ma io non provai alcuna gioia. Ogni sera provavo a chiamarli: telefoni spenti. A Andrij scrivevo: nessuna risposta. Alla fine, venerdì sera feci le valigie. Sabato mattina ero già sul treno, poi sull’autobus, diretta al villaggio.

Durante il viaggio pensavo al giardino della nonna, ai due meli accanto al recinto: un “Bilyj nalyv” e un “Antonovka”. Li aveva piantati l’anno in cui ero nata. «Crescerete insieme,» diceva sempre.

Ma questa volta, quando svoltai l’angolo del sentiero, non vidi più le loro chiome sporgere oltre la recinzione. Solo il vuoto.

Il cancello era aperto. Sul prato, macchie nere di falò spenti. Le peonie ridotte a terra calpestata e steli spezzati.

E poi, l’orrore: al posto dei meli, solo due ceppi freschi, con la segatura ancora chiara.

«Oh, ecco Lena!» esclamò Svetka, spuntando con un bicchiere di vino in mano. I bambini le corsero dietro con i gelati. «Sei arrivata in anticipo! Non abbiamo ancora finito di sistemarci.»

Rimasi a fissare i ceppi, con la gola serrata. Trent’anni cancellati in un pomeriggio.
«Cosa avete fatto?»

«Ah, quelli?» rise lei indicando i tronchi mozzati. «Li abbiamo tagliati. Davano fastidio al nostro relax. Tanto tu non c’eri.»

«Per una piscina gonfiabile?» balbettai incredula.

«Beh, sì e no,» scrollò le spalle bevendo un sorso. «Comunque erano vecchi, le mele acerbe. Meglio comprarle al supermercato.»

Andrij uscì con una bottiglia. «Lena, ma che dramma fai? Erano meli ormai al capolinea, ti abbiamo pure fatto un favore ripulendo il terreno.»

«Un favore?» gridai. «Siete entrati senza permesso, avete distrutto ciò che avevo ereditato, e osate chiamarlo favore?»

Svetka si offese. «Ma dai, ti arrabbi per due alberi? Non ci vieni mai qui. L’erba era alta fino al ginocchio.»

«Non è affar vostro!»

«E poi, siamo di famiglia,» ribatté Andrij con arroganza. «Maksym non avrebbe detto nulla.»

Quella frase fu la scintilla. Maksym amava quegli alberi tanto quanto me. Erano parte della nostra vita.

Inspirai a fondo. «Fate le valigie. Subito.»

Protestarono, ma non cedetti. «O ve ne andate o chiamo la polizia.»

Alla fine, lentamente, si trascinarono via, sbattendo porte e lamentandosi. Prima di salire in macchina, Andrij tentò ancora: «Maksym non approverà.»

«Raccontagli pure la verità,» replicai fredda. «Che siete entrati abusivamente, abbattendo ciò che non vi apparteneva. Raccontateglielo.»

Chiesi le chiavi. Con riluttanza, Andrij consegnò il mazzo, quello con il portachiavi di legno della nonna. Mi si strinse il cuore.

Quando finalmente se ne andarono, rimasi sola davanti ai ceppi. Sfiorai con le dita gli anelli concentrici, come la memoria di una vita recisa.

Scrissi un messaggio a Maksym, pur sapendo che lo avrebbe letto solo settimane dopo:
«Hanno abbattuto i nostri meli. Li ho mandati via. Perdonami se ti dispiace, ma era troppo. Ti amo.»

Poi presi una pala. Scavai due buche accanto ai ceppi. Domani comprerò nuove piantine: un “Bilyj nalyv” e un “Antonovka”. Ci vorranno anni, forse decenni, ma cresceranno. E con loro crescerà anche la mia libertà.

Perché certe ferite non si perdonano. E le persone tossiche non si lasciano entrare. Nemmeno se portano il tuo stesso cognome.

Quella sera, sul portico con una tazza di tè, osservai il giardino spoglio. Per la prima volta da anni mi sentii in pace. Nessuna visita indesiderata, nessuna risata sguaiata. Solo silenzio e la certezza di aver detto un “no” che aspettavo da troppo tempo.

Il telefono vibrò: un messaggio della suocera. «Lena, come hai potuto? Andrij mi ha detto che li hai cacciati! Siamo una famiglia!»

Sorrisi. Blocca numero. Blocca altri cinque.
La voce della nonna mi tornò alla mente: «Chi non sa apprezzare ciò che è tuo non merita il tuo tempo.»

Due alberi abbattuti mi avevano insegnato la lezione. Tardi, ma meglio tardi che mai.

Domani pianterò la mia nuova vita.

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