Pezzente sciocca», mi bisbigliavano alle spalle i parenti di mio marito. Non immaginavano nemmeno che, proprio ieri, il destino mi avesse sorriso: avevo incassato milioni, e il loro disprezzo valeva meno di un centesimo.

«Non mettere più quel vestito, Anja. Ti appiattisce.»
La voce di mia suocera, Tamara Pavlovna, era carezzevole come cashmere… con la tarma dentro.

Lo disse passando accanto a me nel corridoio, senza nemmeno degnarsi di voltarsi. Rimasi ferma davanti allo specchio: un abito estivo semplice, il mio preferito. Lëša ripeteva sempre che con quello sembravo un’eroina del cinema francese.

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«Non le piace?» chiesi piano, cercando di non far tremare la voce.

Si fermò e si girò con lentezza. Il viso, teso e lucido come porcellana, tradiva una superiorità stanca.
«Non è questione di gusti, cara. È questione di status. Mio figlio è a capo di un grande progetto. E sua moglie non può sembrare una scappata da un mercatino.»

Il suo sguardo mi salì e scese addosso, si impigliò nei sandali economici, nella mancanza di oro vistoso, e capii che aveva già emesso la sentenza.
«Non fa niente, aggiusteremo noi. Karina sta andando in boutique: andrai con lei. Ti insegnerà come si veste una signora.»

Karina, mia cognata, spuntò dalla sua stanza come chiamata da un fischio. Setoso, firmato, esageratamente costoso: ogni centimetro di lei gridava etichette.
«Mamma, inutile. Non ha gusto,» cantilenò, osservandomi come una creatura curiosa. «Per portare certi capi serve classe. E qui…»

Non finì la frase. Non serviva. Quel “qui” ero io: l’orfana di una piccola città che il loro “ragazzo d’oro” aveva inspiegabilmente portato in casa.

Non risposi. Annuii soltanto e rientrai nella camera che ci avevano “gentilmente” assegnato. Il nostro appartamento era stato allagato dai vicini; finché durasse la ristrutturazione, i genitori di Lëša avevano aperto le porte. Lui era partito per un viaggio urgente di un mese, certo che tutto sarebbe andato liscio. «Ti adoreranno, vedrai!» mi aveva detto.
Chiusi la porta, vi appoggiai la schiena. Il cuore batteva forte: non per offesa, per rabbia. Fredda, silenziosa, cresciuta in me in quelle due settimane.

Aprii il portatile. Sul sito di scacchi la finale di ieri campeggiava ancora in prima pagina. Il mio nickname — MossaSilenziosa — e la bandierina del mio Paese brillavano sopra l’avatar sconfitto di un grande maestro americano.
Sotto, la cifra del premio: un milione e mezzo di dollari.
Rimasi a fissarla, mentre nelle orecchie ancora mi ronzava la voce di Karina: «Serve classe…»

Quella sera, a tavola, la consueta liturgia. Il suocero raccontava barzellette da circolo privato, Tamara sospirava sul “declino del gusto”, Karina scorreva lo shop online e faceva vedere a tutti ciò che “dovevo assolutamente imparare a portare”. Io passavo il pane. Nessuno chiedeva mai nulla. Nessuno si accorgeva se mangiavo o no.

«Anja, tesoro,» trillò Tamara, «oggi ho sistemato un po’ la tua stanza. C’era una scacchiera vecchia, tutta graffiata… non so da dove venisse, ma l’ho buttata. Meglio liberarsi del superfluo.»

Mi cadde la forchetta nel piatto. Quel “superfluo” l’aveva intagliato mio padre con le sue mani, quando io avevo dieci anni. L’odore del legno, la pazienza dei suoi polpastrelli: tutto finito in un sacco nero.

«Peccato,» commentò il suocero, «ma dopotutto, Anja, una donna sposata ha altre priorità di certi… giochini.»

Risate misurate. Io respirai. Una volta. Due. Tre.

«Ha ragione, papà,» aggiunse Karina. «Tempo che impara a truccarsi e non a spostare cavalli.»

Appoggiai il tovagliolo. Mi alzai. Le loro teste si voltarono all’unisono, come in un’orchestra.
«Vorrei mostrarvi una cosa,» dissi. Aprii il portatile sul tavolo.

La pagina caricò lentamente, quasi teatrale. Il banner della finale, i commenti in diretta, le analisi delle mosse. Ingrandii la schermata con la posizione conclusiva: la mia regina bianca che tagliava la scacchiera come un rasoio. Poi scesi fino alla sezione “Premi”.

Silenzio. Potevo sentire il frigo vibrare in cucina.
«Che cosa… è?» fece Tamara, con la stessa voce con cui avrebbe indicato un insetto sul tappeto.

«Il mio lavoro,» risposi. «E questo—» puntai alla cifra «—il compenso per la finale di ieri. Un milione e mezzo.»

Il suocero tossì. Karina ridacchiò, incerta. «È uno scherzo, vero?»

Cliccai sul mio profilo, mostrai i tornei, gli sponsor, le interviste. La chat che esplodeva di complimenti. Il mio vero nome collegato al nickname. Tutto lì, nero su bianco.

Tamara sbatté le palpebre. «Non capisco. E perché non… perché non ce l’hai detto?»

La guardai con dolcezza. «Perché la classe di cui parlate non serve a niente sulla scacchiera. E neanche a tavola.»

Il suocero cercò di ritrovare il tono autoritario. «Be’, soldi o no, in questa casa ci sono delle regole. Il rispetto—»

«—comincia col non buttare gli oggetti degli altri,» lo interruppi. «Quella scacchiera l’aveva fatta mio padre. Ma tranquilli: non voglio litigare.»

In quel momento si aprì la porta d’ingresso. Lëša, stanco e abbronzato, con la valigia in mano. Si bloccò vedendo la scena: lo schermo, i volti tesi, il mio sguardo.
«Che succede?»

Nessuno rispose. Gli tesi il portatile. L’ombra di un sorriso gli passò negli occhi quando riconobbe il mio profilo. «Ce l’hai fatta,» sussurrò, come se fossimo soli. Poi capì. Guardò sua madre. «Cos’hai buttato via?»

Il seguito fu breve. Poche frasi, abbastanza per intaccare la loro corazza di sicurezza. Io non avevo più voglia di restare. Quella notte stessa prenotai un appartamento: luminoso, con una finestra grande quanto un sogno. Il mattino dopo, mentre Tamara commentava la lunghezza delle mie gonne, consegnarono le chiavi.

In tre giorni, sistemai un tavolo vicino alla finestra e posai sopra una nuova scacchiera — identica alla vecchia, fatta ricostruire da un artigiano con le foto che conservavo. Aprii la mia scuola online: MossaSilenziosa. Le prime iscrizioni arrivarono prima di pranzo. Ragazzini timidi, donne che volevano ricominciare, pensionati curiosi: una folla quieta ma tenace, come un esercito di pedoni in marcia.

Qualche settimana dopo, Lëša tornò con una busta. Dentro, i pezzi originali della scacchiera di mio padre, recuperati dal bidone grazie al portiere che li aveva messi da parte “perché gli sembravano importanti”. Li presi tra le dita, riconobbi le minuscole imperfezioni, il tocco di casa.
«Scacco al destino,» mormorai ridendo.

La sera, mentre sistemavo i pezzi, Lëša si appoggiò allo stipite con un libro in mano. «A volte mi chiedo…» disse. «E se tu non avessi vinto quei soldi? Se loro avessero continuato?»

Posai la regina bianca al suo posto.
«Allora la partita si sarebbe allungata,» risposi. «Ma il finale sarebbe stato lo stesso. Non per i soldi. Per qualcosa che qui non hanno mai avuto.»

Alzò lo sguardo. «E cioè?»

Sorrisi, accarezzando il legno consumato dal tempo.
«La vera classe.»

Scrivetemi cosa ne pensate di questa storia: mi farà davvero piacere!

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