Ho esitato a rispondere. Finito di regolare le rotelle della sedia, le ho accarezzato piano i capelli e ho detto:
«Mamma, qui starai bene. Tuo figlio finalmente avrà il tempo di prendersi cura di te».
Lei ha sorriso, con quella dolcezza ingenua di chi non capisce fino in fondo la portata di ciò che sta accadendo. Anni di prostrazione, anni vissuti chiusa tra quattro mura in un corpo che non obbediva più. Ma gli occhi le erano rimasti vivi, fiduciosi, innocenti.
Ho guardato l’altra donna. Era completamente irrigidita, ancora con la camicia da notte di seta addosso, il mascara fresco sulle ciglia. Non disse nulla, ma mi scrutò con un misto di nervosismo, disprezzo e crescente disagio.
Fu allora che mi voltai verso di lui. Con una voce così calma da sorprendere perfino me, gli dissi:
«Per sette anni mi sono presa cura di tua madre come se fosse la mia. L’ho lavata, nutrita, cambiata. Ho sopportato le sue critiche, i suoi lamenti, i suoi silenzi e le sue lacrime. Mentre tu uscivi a lavorare… o almeno così dicevi».
Deglutì, ma non rispose.
«Non ti ho giudicato. Non ho mai alzato la voce. Ho sempre pensato che fosse nostro dovere condividere i pesi. Ma alla fine ho scoperto che a portarli ero solo io. E tu… tu te ne sei andato senza mai voltarti indietro».
Mi avvicinai al tavolo, presi il quaderno medico e lo aprii, mostrandogli una pagina.
«Qui ci sono le routine dei farmaci. Alle 7 del mattino le serve questo. Alle 10, quest’altro. Non ama i dolci prima di dormire, fa fatica a deglutire. Il dottore ha detto che va cambiata posizione ogni due ore per evitare le piaghe».
A stento reggeva il mio sguardo.
«Non sono venuta a litigare. Sono venuta a restituirti qualcosa che è sempre stato tuo».
Mi chinai su sua madre, le baciai la fronte e le sussurrai all’orecchio:
«Abbi cura di te, mamma. Tuo figlio sarà con te. Ti vuole bene, lo sai? È stato solo… confuso».
Lei sorrise. Credette alle mie parole. E questo fece più male di tutto il resto.
Poi andai verso la porta. Prima di uscire, mi fermai. Mi voltai un’ultima volta e dissi qualcosa che li fece impallidire entrambi:
«Spero che tu, cara», guardai dritta l’amante, «abbia la stessa pazienza che ho avuto io. Perché credimi: quando le notti saranno lunghe, quando dovrai pulire le ferite e ascoltare i lamenti, lui non ti aiuterà. Ti dirà che per queste cose sei meglio tu di lui».
Il silenzio fu assoluto.
E me ne andai.
Sulla strada di casa—adesso casa mia, senza nessun altro—mi prese un misto di sollievo e vuoto. Avevo fatto la cosa giusta, ma l’anima era pesante. Come quando lasci cadere un peso enorme tutto d’un tratto e le gambe ti tremano senza sapere che fare.
Quella notte dormii come non dormivo da anni. Senza alzarmi a cambiare le lenzuola, senza temere che qualcuno soffocasse nel sonno, senza i lamenti dalla stanza accanto. Era strano. Il silenzio era troppo pulito.
Passarono i giorni. Nessuno chiamò. Nessuno venne a lamentarsi di nulla. Era come se fossi stata cancellata dalle loro vite. E anche questo faceva male, ma imparai ad accettarlo.
Due settimane dopo, una vicina che ancora parlava con il mio ex mi disse qualcosa che non mi aspettavo:
«Il tuo ex sta impazzendo. Non sa come prendersi cura di sua madre. La ragazza con cui vive… sembra non essere più così entusiasta dell’idea».
Non dissi nulla. Annuii soltanto e proseguii.
Ma dentro di me qualcosa si mosse. Non per vendetta, ma per giustizia. Per anni ero stata l’ombra silenziosa che teneva in piedi una famiglia spezzata. E ora quella famiglia affrontava la verità: che sull’abbandono non si costruisce nulla.
Giochi di famiglia
Un mese dopo ricevetti una chiamata da un numero sconosciuto. Risposi con cautela. Era lui. La voce roca, quasi spezzata.
«Non ce la faccio più. Non so come hai fatto. Non so come…»
Rimasi in silenzio. Attesi.
«Lei», riferendosi alla compagna, «se n’è andata. Ha detto che non era questo che immaginava. Che non riusciva a gestire… tutto questo».
Dovetti sedermi. L’ironia era troppo grande.
«E tua madre?», chiesi.
«È in ospedale. È caduta. Non ho saputo reagire. Ha urlato il mio nome e io… io mi sono bloccato».
Silenzio.
«Puoi venire?»
La mia risposta fu immediata, senza odio ma ferma:
«No».
Un sospiro di disperazione.
«Ma lei si fida di te».
«E tu ti sei fidato di me per portare tutto. Per sempre».
Non chiusi la chiamata. Lasciai che il peso delle mie parole restasse sospeso. Poi dissi:
«Hai due opzioni: impari a occupartene oppure cerchi un aiuto professionale. Io non sono quell’aiuto».
Riagganciai. Stavolta senza tremare.
Col tempo, ricominciai a costruire la mia vita. Seguii un corso da assistente gerontologica. Non perché volessi continuare a prendermi cura degli anziani, ma perché scoprii di saperlo fare bene, e c’erano molti che lo apprezzavano davvero.
Mio figlio è cresciuto vedendo una madre forte. Ha imparato che l’amore non è servitù. Che il rispetto di sé vale più delle promesse infrante.
Cesti regalo
Un anno dopo ricevetti una lettera. Non era sua, ma di sua madre. Scritta con fatica, una grafia tremante ma chiara. Diceva:
«Grazie. Per non avermi abbandonata prima. Per esserti presa cura di me quando non lo meritavo. Mio figlio sta ancora imparando. Io sono ciò che sono grazie a te».
Piangai. Piangai tanto. Perché, nonostante tutto, quella donna che avevo tanto odiato in silenzio… mi chiedeva perdono.
Oggi, la mia casa è piena di piante. La pace profuma di gelsomino. E ogni volta che innaffio i fiori, penso a quante volte ho smesso di innaffiare me stessa per prendermi cura degli altri.
Non me ne pento. Perché ho imparato. Perché ora sono libera.
E perché la prossima volta che qualcuno proverà a lasciarmi sola con il peso del suo abbandono… saprò esattamente cosa dirgli, a testa alta e con la dignità intatta:
«Non tocca a me salvare nessuno. Io ho già salvato me stessa».