Quando la matrigna è diventata davvero la mia seconda mamma, dopo la scomparsa di papà

Da orfanotrofio a casa: come la donna che chiamavo “matrigna” è diventata mia madre

Da piccolo avevo tutto: mamma, papà e me. La nostra casa a Ekaterinburg risuonava di risate, profumo di tè e chiacchiere della sera. Poi la vita ha cambiato strada.

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Avevo otto anni quando la mamma si ammalò. Sperammo fino all’ultimo. Quel giorno papà tornò dall’ospedale con gli occhi spenti e sussurrò soltanto: «Anna non c’è più». Da allora si spense anche lui. Al posto della cena arrivavano lattine di birra, i piatti si accumulavano nel lavello, i vestiti restavano sporchi. Andavo a scuola come capitava, gli amici mi evitavano, gli insegnanti mi parlavano piano, come a non farmi male.

Furono i vicini a chiamare l’assistenza sociale. Due donne entrarono, guardarono la cucina incrostata, presero appunti e dissero: «Se entro un mese non cambia nulla, il bambino sarà allontanato». Papà si spaventò. Smise di bere, riempì il frigorifero, pulì la casa come non l’avevo mai vista. Per un attimo credetti che saremmo risaliti.

Poco dopo mi presentò Larisa, una sua conoscente che viveva a Čeljabinsk. Abitava con il figlio, Vitya, di due anni più piccolo di me. All’inizio stavo sulle mie: come si fa ad accogliere un volto nuovo quando quello che manca è insostituibile? Ma Larisa era calma, pratica, affettuosa senza invadere. Cominciammo ad andare da lei nei fine settimana. Un giorno, quasi senza accorgermene, dissi a papà:
— Mi piace stare da zia Larisa.

Alla fine ci trasferimmo da lei e l’appartamento di Ekaterinburg venne affittato. La routine riprese forma: compiti fatti, orari, sorrisi che tornavano. Durò poco. Un mattino papà uscì per il turno in fabbrica e non rientrò. Infarto. A dieci anni rimasi senza genitori.

Tre giorni dopo si ripresentarono i servizi sociali. Freddi, svelti: «Legalmente Larisa non è parente stretta. Il minore deve andare in istituto». Non ebbero bisogno di altro. Mi portarono via. In tasca stringevo il portachiavi di papà: una minuscola ancora di metallo, tutto ciò che avevo di lui.

L’orfanotrofio a Perm’ fu un gelo che entrava nelle ossa. Parlavo poco, non mi legavo a nessuno. Ogni settimana però Larisa arrivava con una sciarpa morbida d’inverno, con un libro d’avventura, con caramelle da dividere con Vitya quando veniva con lei. «Non mollo, Sasha. Tornerai a casa», ripeteva. Io, dopo i primi mesi, smisi di crederci: certificati, timbri, code, commissioni—sembrava che la burocrazia fosse più grande di noi.

Un giorno mi chiamarono in direzione. Larisa era lì, gli occhi lucidi e un sorriso largo; accanto a lei, Vitya che ormai mi arrivava quasi alla spalla.
— Bene, Sashenka, si va a casa — mi disse piano.
Mi si sciolsero le ginocchia. Li abbracciai e piansi come non piangevo da anni.

Ricominciammo da Čeljabinsk. Larisa non faceva discorsi lunghi: cucinava, chiedeva dei compiti, ci accompagnava a calcio o al medico, ci sgridava quando serviva, e ci difendeva quando era giusto. Modesti nei soldi, ricchi di presenza. A ogni festa preparava i suoi pirožki al cavolo, riuniva due piatti sbeccati e un sorriso intero. Ci insegnò a non cedere alla sfortuna, a tenere la testa dritta.

Io finii la scuola, entrai all’università, trovai il mio primo lavoro. Vitya diventò un brav’uomo. Fratelli davvero, anche se il cognome diceva altro.

Oggi abbiamo famiglie nostre. La domenica è sacra: io, le nostre mogli, i bambini—tutti da mamma. Così la chiamiamo. Larisa frigge frittelle, ridacchia con i nipoti, e ci chiede se abbiamo mangiato abbastanza come quando avevamo dodici anni. Si preoccupa per noi più di quanto noi ammetteremo mai.

Se penso a tutto, capisco che senza Larisa mi sarei perso. Mi ha dato una casa quando ne avevo più bisogno e un nome nuovo per la stessa parola: madre. Mi ha insegnato che la famiglia non sta soltanto nel sangue: la costruiscono le mani che ti rialzano e il cuore che resta. E questo non lo dimenticherò, qualunque sia il tempo che passa.

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