Ricordo ancora quel pomeriggio di pioggia: venni buttata fuori da quello che chiamavo “casa” a Quezon City, con una valigia sgangherata e il telefono quasi scarico come un lumicino.
Mio marito — lo stesso che aveva promesso un “per sempre” — mi chiuse la porta in faccia dopo il secondo aborto spontaneo.
«Ti ho sposata per avere dei figli, non per badare a una che sa solo piangere», sputò, e il colpo della serratura fu come un verdetto.
Rimasi lì, impalata sotto l’acqua. I miei genitori erano morti, non avevo fratelli, quasi nessuna famiglia. Gli amici avevano vite piene. Salii su un autobus notturno per fuggire dall’umiliazione. Tornai a Batangas, la cittadina dove ero nata e che avevo lasciato in cerca di fortuna. Nessuno si ricordava più della studentessa modello di un tempo.
Affittai una stanzetta vicino al mercato e campai alla giornata: aiutavo ai banchi di verdura, pulivo scale e cortili, accettavo qualunque lavoretto.
Poi conobbi Tomas.
Aveva la mia età, lavorava in una piccola squadra edile lì vicino. Alto, scuro di pelle, di poche parole, ma con uno sguardo stranamente gentile. Quel giorno si fermò al banco e chiese:
«Sei appena tornata in provincia? In te c’è qualcosa di strano… e familiare.»
Sorrisi:
«Strano e familiare perché siamo poveri tutti e due.»
Rise, una risata un po’ spiazzata ma sincera. Da allora, ogni sera passava a comprare verdure, anche quando era chiaro che non gli servissero.
Una notte venne giù un temporale e la mia stanza prese a gocciolare da ogni lato. Tomas mi trovò raggomitolata sotto una coperta e disse:
«Vieni da me per qualche giorno. Qui il tetto non perde. Vivo da solo.»
Ero indecisa, ma la stanchezza prevalse. Accettai. Fu rispettoso, gentile, non oltrepassò mai i confini. Condividevamo lo spazio, non il letto. Lui cucinava riso e teneva da parte qualche peso; io lavavo e stendevo. Tutto si incastrò senza grandi parole.
Una settimana. Poi due.
Una sera, mentre sparecchiavo, si fermò davanti a me:
«So che hai sofferto. Non ho niente: niente casa, niente soldi… ma se non ti spaventa, vuoi sposarmi?»
Rimasi di sasso. Una parte di me voleva scappare: le ferite erano ancora aperte. Un’altra parte, però, desiderava una casa vera. Annuii.
Ci sposammo nella sala del barangay: qualche piatto semplice, i colleghi del cantiere. Niente abito bianco né bouquet. Indossai il vecchio Filipiniana di mia madre; come fede, un braccialetto d’argento che Tomas aveva fuso con le sue mani.
La vita dopo fu di una semplicità disarmante. Tomas si alzava presto, preparava riso e brodo prima del cantiere. Io coltivavo e vendevo verdure. Non urlava, non beveva, non giocava d’azzardo. Tornando la sera, chiedeva solo:
«Hai mangiato?»
«Come ti senti?»
«Qualcuno ti ha mancato di rispetto?»
Piano piano mi sono sentita preziosa: non per i figli che potevo dargli, ma per quello che ero.
Finché un giorno, pulendo, trovai sotto il letto una scatola di legno.
La aprii per curiosità.
Dentro c’erano tre titoli di proprietà — tutti intestati a Tomas Reyes — e l’estratto di un deposito a termine di oltre 1,8 milioni di ₱.
Rimasi senza parole. Quel manovale che cenava con pesce secco e verdure, con i sandali di plastica ai piedi, possedeva terreni e un bel gruzzolo — e non ne aveva mai parlato.
Perché nasconderlo? Chi era davvero? E perché aveva scelto me?
Rimisi tutto a posto e non chiusi occhio. «Perché l’hai tenuto segreto? Chi sei? Mi hai cercata apposta?» mi rimbalzava in testa.
La mattina dopo, appena rientrato, lo affrontai:
«Tomas, scusami. Ho trovato quella scatola.»
Si sedette. Mi guardò a lungo, senza rabbia.
«Sapevo che prima o poi l’avresti vista. Non volevo mentirti per sempre.»
Tacqui, in attesa.
«Non ero messo così male come credevi. Ero ingegnere edile, avevo una piccola impresa e una casa a Lipa. Quattro anni fa mia moglie mi lasciò per un altro, portandosi via tutto, persino i documenti della casa. Caddi a pezzi. Poi morì mia madre, lasciandomi quei terreni. Ho messo da parte quel deposito lavorando nei cantieri, guidando il triciclo, facendo giardini per pochi spiccioli… Ho vissuto di poco non perché non avessi soldi, ma per reimparare a ricominciare. Non mi fidavo più di nessuno, finché non ho incontrato te.»
Alzò gli occhi, morbidi:
«In te ho visto una persona ferita, ma dritta come una palma. Non te l’ho detto perché temevo pensassi che ti stessi comprando, o che volessi farti pena.»
«E allora… perché sposarmi?» sussurrai.
Sorrise:
«Perché non mi hai mai chiesto quanto avessi in tasca. Cercavo un tetto, un pasto caldo e qualcuno che non urlasse.»
Le lacrime arrivarono da sole. Dopo anni di promesse vuote, quest’uomo, senza proclami, mi offriva la cosa più rara: una fiducia quieta.
Da lì non ci furono più segreti. Mi portò su un terreno vicino alle mangrovie, sulla costa: voleva costruire una casa di legno con le sue mani.
«Pensavo di invecchiare da solo. Ora che ci sei tu, facciamo due stanze», disse.
Annuii. Per la prima volta mi sentii scelta, non sopportata.
Cominciammo a sognare: io ortaggi biologici e galline all’aperto; lui un impianto a goccia, piccole capanne da affittare, caffè tostato in casa da vendere alla sari-sari in fondo alla strada. La terra diventò un giardino tranquillo: uccelli al mattino, profumo di caffè al pomeriggio.
Tre mesi dopo successe l’incredibile: ero incinta.
Dopo due aborti, avevo smesso di sperarci. Stavolta, con un uomo che non mi aveva mai messo fretta, arrivò un dono che credevo perduto.
Tomas tremava mentre mi stringeva:
«Io non ho bisogno di figli per essere felice. Mi basti tu. Ma se Dio ci benedice, sarà il regalo più bello.»
Lo abbracciai piangendo. Capivo finalmente che il matrimonio non è una gabbia: è una casa — un posto in cui si entra e si resta per scelta, ogni giorno.
Ora, ogni mattina, sento il legno che scricchiola, il gallo che canta, Tomas che fischietta mentre spazza il cortile. La vita non è diventata facile, ma non mi sono mai sentita così ricca: di rispetto, di calma, di fiducia.
Se non mi avessero cacciata, forse non avrei mai incontrato Tomas Reyes. Lui è rimasto nel cuore pulsante delle Filippine per amarmi con la cosa più nobile che possiede: la sua lealtà.