«Un’anziana cieca mi ha chiesto di riaccompagnarla a casa. Il giorno dopo, però, i suoi figli sono arrivati alla mia porta insieme alla polizia.»

Quella mattina sembrava uguale a tutte le altre: il mio saluto a papà, davanti alla sua lapide, prima di ricominciare la giornata. Non avrei mai immaginato che, ventiquattr’ore dopo, mi sarei ritrovata in un commissariato, additata per un furto che non avevo mai commesso. Tutto, pareva, per una semplice gentilezza verso una sconosciuta cieca.

Il dolore ha una logica tutta sua: dilata le ore, lima i ricordi finché pungono. Sono passati sei mesi da quando papà se n’è andato, e ogni settimana torno da lui a raccontargli ciò che non ho avuto il coraggio di dire in vita. Quella mattina l’aria era frizzante; il vento faceva sussurrare le querce e io stringevo un mazzo di gigli bianchi—i suoi preferiti.

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«A presto, papà», mormorai, asciugandomi una lacrima. Stavo per allontanarmi quando notai, presso la tomba accanto, una figura esile: una donna anziana vestita di nero, occhiali scuri e bastone bianco. Sembrava disorientata.

«Ha bisogno di aiuto?» chiesi, avvicinandomi piano.

Inclinò appena la testa e mi rivolse un sorriso caldo. «Se non le pesa, mi accompagni a casa. I miei figli avevano promesso di tornare a prendermi… ma dev’essere sfuggito loro di mente.»

Mi si strinse il cuore. «Certo. Venga, andiamo.»

Camminando tra i vialetti, mi disse di chiamarsi Kira. Suo marito, Samuil, era morto da pochi giorni. «Quarantadue anni insieme», sussurrò, e la voce le si spezzò. Le presi la mano. «Mi dispiace molto.»

Aggiunse, con amarezza, che i figli, Anton e Maksim, l’avevano lasciata ad aspettarli a lungo. Non feci domande. La sua casa era un piccolo gioiello in mattoni, incorniciato da rose. Prima che me ne andassi, mi invitò a prendere un tè. Esitai, poi accettai: la sua gentilezza aveva il sapore di un porto sicuro.

Dentro, tutto profumava di ordine e memoria. Sulle pareti, fotografie ingiallite: in una, Kira e un uomo sorridente davanti alla Torre Eiffel. «Samuil aveva messo telecamere un po’ ovunque», commentò mentre il bollitore fischiava. «Diceva che i ragazzi badano più alle mie cose che a me.» Quelle parole mi rimasero addosso mentre la salutavo sulla soglia.

La mattina dopo, bussano forte alla mia porta. Apro, ancora in pantofole: due uomini e un agente di polizia. «È lei!» sbotta uno. «Ieri era a casa di nostra madre!» L’agente prende la parola con calma: «Ha accompagnato una signora di nome Kira?». «Sì», rispondo. «Dal cimitero a casa.» «E poi l’ha derubata?» ringhia l’altro figlio.

Sbianco. «Assolutamente no.» L’agente alza una mano: «Venga con noi. Dobbiamo chiarire.»

In commissariato trovo Kira seduta, il bastone appoggiato alla sedia. Appena mi vede, si rasserena: «L’avevo detto che non eri stata tu». Poi si gira verso i figli: «Siete precipitosi… e avidi». «Mamma, per favore», sussurra Anton. Lei, implacabile: «Ci sono le telecamere. L’ho detto all’agente».

«Telecamere?» chiede lui, sorpreso. «Sì: salotto, cucina, corridoio. Samuil non si fidava, nemmeno di voi.»

Poco dopo ci portano un portatile con i filmati. Sullo schermo, io che aiuto Kira a sedersi, vado in cucina per il tè e poi la saluto. Fine. Ma il video prosegue: si vedono Anton e Maksim entrare, frugare nei cassetti, aprire cofanetti, sfilare banconote da barattoli nascosti.

Silenzio. L’agente mette in pausa. «Avete qualcosa da dire?» Anton abbozza: «Cercavamo dei documenti». «Nei portagioie?» ribatte l’agente. Maksim si copre il viso: «È stato un errore». Kira chiude gli occhi, stremata: «Avete tradito me e la memoria di vostro padre». Vengono arrestati per furto e falsa denuncia. Io resto vicino a Kira, ancora scossa.

«Mi dispiace, cara», mormora stringendomi la mano. «Samuil aveva ragione a preoccuparsi…» «E adesso?» chiedo. «Deciderà il giudice», risponde l’agente. «Ma aver mentito su di lei non li aiuterà.»

Quella sera riaccompagno Kira a casa. Restiamo a lungo in cucina, due tazze fumanti tra noi. «Da piccoli erano dolci», racconta. «Poi hanno cominciato a chiedere, pretendere, esigere…» «Perché non li hai allontanati?» domando piano. «Il cuore di una madre è ostinato», sospira. «Spera sempre in un domani diverso.»

Comincio a passare da lei più spesso. La casa cambia ritmo: non c’è più l’ansia del passo furtivo, ma il respiro quieto del pomeriggio. «Senti com’è tornato il silenzio buono», dice un giorno, mentre il sole disegna reticoli di luce sul pavimento. «Te lo meriti», le rispondo. Sorride. «Io e Samuil abbiamo faticato per ogni cosa. E poi sono stati i nostri stessi figli a minarla.»

«Ti penti di non averli fermati prima?» chiedo. Si volta verso la finestra, gli occhiali che scivolano sul naso. «Il rimpianto consuma. Ma servirà a cambiare chi non vuole cambiare? Non lo so. So che una madre perdona fino all’ultimo.»

Le stringo la mano. «Sei più forte di quanto pensi. E Samuil lo sapeva.» «Forse è stato lui a mandarti qui», sussurra. Quando mi alzo per andare, mi abbraccia: «Grazie. Sei stata luce nella mia notte». «E tu nella mia», dico piano.

Torno a casa con un passo leggero, come se qualcuno mi avesse tolto un peso invisibile dalle spalle. Mi restano in mente le sue parole: a volte, gli estranei diventano famiglia. E succede proprio quando meno te lo aspetti.

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