Mi hanno cacciata dalla farmacia con mio figlio che piangeva tra le braccia — ma ciò che è accaduto dopo ha stravolto la mia vita per sempre.

Il giorno in cui degli sconosciuti mi costrinsero a uscire da una farmacia con mia figlia in lacrime, mi sentii minuscola, trasparente. Ma proprio quando ero convinta che il mondo non potesse essere più freddo di così, un uomo in una tutina da unicorno fece il suo ingresso — e da lì la mia vita prese una direzione che non avrei mai immaginato.

Stavo rintanata in un angolo della CVS, cullando Emma stretta contro il petto e sussurrandole piano, mentre dentro di me pregavo che il farmacista si decidesse finalmente a chiamare il mio nome. Eravamo lì da quasi un’ora, in attesa delle gocce per il reflusso che il pediatra aveva prescritto quella mattina. Ogni tanto mi avvicinavo al bancone:

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«Sono pronte?»

E immancabilmente, la stessa risposta piatta:
«La ricetta è ancora in lavorazione.»

Fuori la pioggia scendeva sottile e ostinata, rigando i vetri di grigio e umidità.
Dentro, l’aria sapeva di disinfettante, plastica e nervosismo. Le braccia mi bruciavano per il peso di Emma, e il corpo protestava dopo un’altra notte quasi in bianco.

«Abbiamo quasi finito, piccolina», le mormorai, dondolandola piano. «Ancora qualche minuto e torniamo a casa.»

Lei emise un lamento strozzato, passandosi il minuscolo pugno sulla guancia. Provai a tirare fuori il biberon dalla borsa, sperando che bevendo si calmasse, ma era oltre: troppo stanca, troppo irritata, in quel livello fragile in cui niente va bene.

Qualcuno in fila si voltò verso di noi. Sentivo addosso gli sguardi, pesanti come giudizi non detti.

Provai a scherzare a mezza voce:
«Lo so, amore… anche la mamma è stanca.»

Ma la verità è che ero lì lì per crollare.

Quando mi ritrovo in posti del genere ad aspettare, la mente va indietro. A come tutto è cominciato.

Due anni e mezzo prima ero convinta di avere la vita più o meno sotto controllo. Uscivo con un uomo di nome Daniel. Ci eravamo conosciuti a un barbecue tra amici: lui aveva quel modo sicuro e rilassato di stare al mondo che mi aveva fatto pensare subito questa volta è diverso.

Per un po’ era sembrato davvero così. Parlavamo di tutto: vacanze, figli, di una casa vicino all’oceano dove invecchiare insieme. Mi stringeva la mano e diceva:
«Tu sei il mio futuro, Grace.»

Quando gli dissi che ero incinta, si fece improvvisamente silenzioso. Disse che doveva «mettere in ordine le idee».

La mattina dopo, il suo numero risultava disconnesso. Nel giro di una settimana il suo appartamento era vuoto. L’unica cosa rimasta era un biglietto sul bancone:
«Mi dispiace. Non sono pronto per essere padre.»

Fine. Nessuna discussione. Nessun chiarimento. Solo io, e quel piccolo cuore che batteva dentro di me.

Col tempo ho imparato a tirare avanti. Lavoro part-time, notti spezzate, pannolini, poppate. Ho comparato tutte le marche di latte in polvere e ho perfezionato l’arte di sopravvivere con tre ore di sonno a notte. Ma nessuno ti prepara alla solitudine che ti assale nei momenti più banali. Come una fila in farmacia.

Una voce secca mi strappò dai pensieri.

«Signora.»

La farmacista, camice bianco e capelli lisci perfetti, mi fissava dal bancone.
«Può spostarsi, per favore? Sta bloccando l’area del ritiro.»

«Oh, certo, mi scusi», dissi in fretta, trascinando il passeggino più in là. «È solo che… lei non sta bene, e sto aspettando—»

Non feci in tempo a finire.

«Alcuni di noi hanno problemi veri», sbottò una donna in fila. «Non è un asilo, questo. Magari la prossima volta non porti il bambino in farmacia.»

Quelle parole mi colpirono in pieno petto. Sentii il viso infiammarsi.
«Non ho nessuno che possa tenerla», mormorai.

Un’altra voce si aggiunse, pungente:
«Allora forse non dovrebbe uscire se non è in grado di gestire la situazione.»

Emma, percependo la mia tensione, iniziò a irrigidirsi. Cercai di cullarla, ma era fatta: scoppiò in un pianto disperato, a tutti polmoni. Il suo visino diventò rosso, e il suo pianto sembrava rimbalzare sulle piastrelle, ingigantito.

Più persone si voltarono, alcuni sospirarono, altri borbottarono qualcosa sottovoce.

Poi arrivò la frase che mi gelò il sangue.

Una donna vicino al bancone si girò verso di me, le braccia incrociate.
«Dovrebbe portare quella bambina fuori. C’è chi non tollera questo baccano.»

Rimasi lì, come inchiodata. Non sapevo se rispondere, scusarmi, urlare o scappare.

In quel punto esatto, circondata dal fastidio degli altri, mi sentii minuscola, svuotata. Finché qualcosa non attirò l’attenzione di Emma. Il suo pianto rallentò. Gli occhi le si spalancarono, lucidi di lacrime ma improvvisamente curiosi.

Guardava oltre la mia spalla. Verso l’ingresso.

Mi girai per capire cosa stesse fissando. E lo vidi.

Per un istante pensai di stare avendo un’allucinazione per la stanchezza. Dalle porte automatiche della CVS stava entrando un uomo alto, avvolto in una tutina da unicorno azzurro pastello, con tanto di cappuccio, orecchie e un piccolo corno dorato sulla testa. In una mano teneva una busta della spesa, sul viso un’espressione incredibilmente tranquilla.

L’intero negozio sembrò fermarsi. Anche la donna che mi aveva appena aggredita con lo sguardo rimase a metà del suo sospiro esasperato.

Lo sguardo dell’uomo percorse la sala e si posò su di noi. O meglio: su Emma, che nel frattempo aveva smesso di piangere e stava osservando quel buffo unicorno umano con la bocca socchiusa. I singhiozzi si trasformarono in piccoli sospiri a intermittenza.

Poi accadde una magia. Emma ridacchiò.

Una risata tenera, spezzata, ma limpida. Il suono che avevo implorato in silenzio per un’ora.

L’uomo sorrise, e senza esitazioni venne dritto verso di noi.

La donna maleducata aggrottò la fronte:
«Ma che diavolo…?»

Lui si fermò accanto al passeggino e, con voce calma ma decisa, disse abbastanza forte perché tutti sentissero:
«Per quale motivo state importunando mia moglie?»

La farmacia cadde in un silenzio irreale.

Sgranai gli occhi. «Sua… che cosa?»

Lui si voltò verso la donna che mi aveva attaccata prima. Alzò un sopracciglio.
«Ha davvero appena preso di mira una madre con una bambina malata in braccio? Preferisce chiarire fuori o scusarsi qui davanti a tutti?»

La donna si impappinò:
«Io… non sapevo…»

«Non sapeva cosa, esattamente?» insistette lui, sempre con quel tono tranquillo ma tagliente. «Che i bambini piangono? Che a volte una madre deve comprare le medicine? Le dev’essere sfuggito qualche capitolo della vita reale.»

Dietro di noi qualcuno sogghignò.
Qualcun altro bisbigliò: «Ha proprio ragione…»

Il viso della donna diventò paonazzo. Afferrò la borsa con un gesto brusco e se ne andò senza voltarsi, facendo tintinnare i campanelli della porta.

Lui tornò a guardarmi e, per la prima volta, lo vidi davvero: capelli castani un po’ troppo lunghi, occhi incredibilmente dolci, una fossetta che compariva quando sorrideva.

Si chinò al livello del passeggino.
«Ehi, piccolo unicorno», disse a Emma. «Va un po’ meglio adesso?»

Lei ridacchiò di nuovo, allungando la manina verso il corno dorato.

Io lo guardavo ancora come se fossi dentro un sogno.
«Ehm… e lei chi sarebbe, di preciso?»

Lui sorrise sotto il cappuccio.
«Tom. Abito a qualche isolato da qui. Ero nel parcheggio, ho visto la scena dal vetro e ho pensato… forse a un bambino serve qualcosa di buffo da guardare più che un mucchio di adulti cattivi da sentire.»

Lo fissai incredula.
«Quindi lei… aveva casualmente una tutina da unicorno a portata di mano?»

Si mise a ridere.
«Mio nipote l’ha dimenticata in macchina dopo una festa in maschera. Stavo proprio andando a darla in beneficenza. Poi vi ho viste e mi sono detto: vabbè, usiamola per combattere i troll della farmacia.»

Nonostante la stanchezza, lo stress, la vergogna, mi scappò una risata vera. Di quelle che ti scuotono lo stomaco. Non mi capitava da mesi.

Dietro di noi la farmacista si schiarì la voce, imbarazzata.
«Signora, la sua ricetta è pronta.»

«Arrivo», dissi, prendendo il sacchetto di carta.

Tom si tirò su.
«Ha bisogno di una mano con le buste?»

«Ha già fatto fin troppo», obiettai.

Lui alzò le spalle.
«Che ci posso fare? Adoro le uscite teatrali. Dai, l’accompagno all’auto.»

Fuori, la pioggia era diventata un velo leggero. Tom mi tenne la porta e poi, con naturalezza, sollevò il cappuccio da unicorno e lo sistemò sopra il passeggino per riparare Emma. Lei scoppiò di nuovo a ridere.

«Vede?» disse piano. «Ai bambini basta qualcosa di carino per sentirsi un po’ meglio.»

Gli rivolsi un sorriso timido.
«Non doveva… quello che ha fatto lì dentro…»

«In realtà sì», ribatté lui, sempre calmo. «Nessuno dovrebbe sentirsi minuscolo solo perché è umano. Soprattutto una mamma che sta chiaramente facendo del suo meglio.»

Mi porse il sacchetto e fece qualche passo indietro, come per congedarsi.
«Si prenda cura di sé, Grace.»

Mi fermai di colpo.
«Aspetti… come fa a sapere il mio nome?»

Indicò il sacchetto della CVS.
«L’hanno chiamata al bancone. E poi… gli unicorni sono molto attenti ai dettagli», disse strizzando l’occhio.

E se ne andò così, sotto la pioggerella, lasciandomi accanto alla mia bambina finalmente serena e con un calore strano che mi si allargava dentro, in un posto che credevo ormai spento.

Quella notte non riuscii a togliermelo dalla testa. L’uomo con la tutina da unicorno. Ogni volta che ricordavo il suo sorriso sciocco o le parole con cui mi aveva difesa, sentivo qualcosa che non provavo da tanto: sicurezza. Come se, per un attimo, qualcuno avesse deciso che io meritavo di essere protetta.

La mattina dopo mi imporsi di archiviarlo.
Era solo uno sconosciuto gentile. Punto. La vita non è una favola, Grace. Gli sconosciuti gentili spariscono.

Solo che la vita, a volte, ha un umorismo tutto suo.

Qualche giorno più tardi, un bussare discreto alla porta del mio appartamento mi fece sobbalzare. Guardai dallo spioncino… e quasi scoppiò a ridermi il cuore.

Era Tom. Niente tutina da unicorno addosso, ma tra le braccia teneva un enorme unicorno di peluche, grande quasi quanto Emma.

«Ciao», disse, un po’ impacciato. «Non ero sicuro che ti facesse piacere rivedermi, ma pensavo che… magari a Emma avrebbe fatto piacere conoscere questo tizio.»

Emma, appena vide il peluche, lanciò un gridolino e protese le manine. Io scossi la testa, sorridendo.
«Non dovevi.»

«Volevo», rispose. «Gli unicorni si sostengono a vicenda.»

Da quel giorno divenne la nostra battuta privata.

Tom iniziò a passare ogni tanto. A volte arrivava con due buste della spesa quando ero troppo stanca per andare al supermercato. Altre volte passava solo per vedere come stava Emma, restava dieci minuti, faceva due smorfie, la faceva ridere e poi andava via.

Una volta, quando il lavello della cucina decise di esplodere improvvisamente, lui si presentò con una chiave inglese e lo aggiustò senza fiatare. Quando cercai di pagarlo, si limitò a scuotere la testa:
«Gli unicorni non fanno pagare la famiglia.»

All’inizio mi sembrava strano lasciarlo entrare così spesso nella nostra routine. Ero abituata a cavarmela da sola, con il cuore blindato. Ma Tom non forzava niente. Non cercava di “salvarmi”, non si comportava da eroe. Era solo… presente. Costante. Autentico.

E piano piano, una crepa dopo l’altra, i miei muri cominciarono a cedere.

Dopo che Emma si addormentava, restavamo spesso seduti sul divano a parlare. Lavoro, ricordi d’infanzia, paure. Mi raccontò che aveva perso il lavoro durante la pandemia e che da allora si arrangiava come freelance, aggiustando cose in giro per il quartiere. Io gli confidai delle notti in cui piangevo in silenzio, convinta di non essere abbastanza per mia figlia.

Lui mi guardò serio, quasi ferito dalla mia stessa frase.
«Grace, tu non sei “abbastanza”. Tu sei tutto il suo mondo», disse piano.

Qualcosa dentro di me, quella notte, si aprì.

I mesi passarono. Emma iniziò a camminare, poi a parlare. Ogni volta che vedeva Tom gridava:
«Uni-còrno!»

e gli correva incontro.

Lui la sollevava in aria, la faceva girare e rideva:
«Il miglior benvenuto di sempre.»

Quando Emma compì due anni, Tom non era più “il tipo buffo della CVS”. Era uno di noi.

Un giorno, una domenica mattina qualunque, mentre preparavamo i pancake in cucina, mise un anellino accanto al piattino di Emma. Nessuna scena teatrale, niente discorsi drivolti in piedi su una sedia. Solo lui, con quell’aria calma, che disse:
«Mi sento già parte della vostra famiglia. Ti va di renderlo ufficiale?»

Io iniziai a piangere, ovviamente. Emma batté le mani e gridò:
«Evviva, unicorno!», facendoci scoppiare a ridere tutti e due.

Qualche mese dopo, al municipio, ci scambiammo promesse semplici ma vere. Emma era la nostra minuscola damigella, con il suo unicorno di peluche stretto al petto.

Dopo la cerimonia, Tom si chinò verso di me:
«Ti ricordi la CVS?»

«Come potrei dimenticarla?» risposi, sorridendo.

Lui rise piano.
«Chi l’avrebbe detto che qualcosa di bello potesse nascere nel posto più assurdo del mondo.»

Adesso, ogni volta che Emma non sta bene o si sente giù, Tom tira fuori quella vecchia tutina da unicorno e balla in mezzo al salotto fino a quando lei non esplode in una risata contagiosa. A volte mi ritrovo a ridere così forte che mi scendono le lacrime, guardandolo lì, in quel costume ridicolo, e penso a quanto abbiamo rischiato di non incontrarci mai.

Quell’uomo buffo, entrato in farmacia in una tuta azzurra con un corno dorato, ci ha dato tutto ciò che pensavo di aver perduto per sempre:

Una casa.
Una famiglia.
E la prova che, a volte, l’amore comincia davvero dalla porta più inaspettata.

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