L’ha costretta a firmare il divorzio in ospedale… ma alla fine l’abbandonato è stato lui.

La stanza al settimo piano di una clinica privata sembrava sospesa fuori dal mondo. Il monitor cardiaco scandiva un ritmo ostinato, regolare, mentre la luce lattiginosa disegnava ombre sottili sul viso pallido di Hanh, ancora provata dall’intervento alla tiroide.

Non aveva nemmeno finito di riemergere dall’anestesia quando lo vide: Khai era lì, in piedi accanto al letto, una cartellina gonfia di fogli stretta tra le dita, come se fosse venuto a sbrigare una pratica qualunque.

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— Sei sveglia? Bene. Firma.

La frase le arrivò addosso come aria fredda. Hanh batté le palpebre, la gola le bruciava, la lingua sembrava pesante.

— Che… che cosa devo firmare?

Khai spinse i documenti verso di lei senza un’esitazione, senza un tremito.

— Il divorzio. Ho già preparato tutto. Metti la tua firma e chiudiamola qui.

Per un attimo Hanh rimase immobile, stordita. Il dolore dell’operazione era fastidioso, sì, ma quello che le si aprì nel petto fu peggio: un taglio netto, improvviso. Provò a parlare, ma la voce uscì spezzata.

— Stai… stai dicendo sul serio?

Lui non abbassò lo sguardo.

— Certo che sono serio. Non ho intenzione di passare mesi a badare a una donna debole, malata. Sono stanco di reggere tutto. Voglio vivere. Voglio seguire ciò che sento davvero.

Lo disse con la stessa calma di chi decide di cambiare macchina, non di cancellare quasi dieci anni di vita condivisa.

Hanh lasciò scivolare una lacrima dall’angolo dell’occhio. Ridacchiò piano, un sorriso fragile, incredulo.

— Hai aspettato che fossi inchiodata a un letto… che non potessi nemmeno alzarmi… per mettermi questo in mano.

Khai rimase in silenzio qualche secondo. Poi fece un piccolo cenno, come se la sua fosse una scelta inevitabile.

— Non farmene una colpa. Prima o poi sarebbe successo. C’è un’altra persona. Non vuole più restare nascosta.

La gola di Hanh pulsò, ma questa volta non per i punti. Si morse il labbro. Dentro, tutto urlava. Eppure, non urlò. Non implorò. Sollevò solo gli occhi su di lui, con una dolcezza che lo spiazzò.

— Dov’è la penna?

Khai esitò.

— Tu… firmerai davvero?

Hanh inspirò lentamente.

— Non hai appena detto che era destino?

Lui le porse una penna. Hanh la afferrò con mano tremante e, con un’attenzione quasi solenne, scrisse il suo nome. Una lettera dopo l’altra. Poi chiuse i fogli e glieli restituì.

— Ecco. Ti auguro tutto il bene che stai cercando.

Khai sbatté le ciglia, come se si aspettasse pianti, scenate, suppliche. Invece ricevette quel tono quieto.

— Ti farò avere ciò che ti spetta come da accordi — mormorò. — Addio.

Si girò e uscì. La porta si richiuse con un suono morbido… quasi gentile.

Passarono forse tre minuti.

La porta si riaprì.

Entrò il dottor Quan: camice perfetto, passo deciso, lo sguardo di chi ha dormito poco ma è rimasto in piedi. Nella mano sinistra stringeva alcune cartelle cliniche; nell’altra un mazzo di rose bianche, così candide da sembrare irreali in quell’odore d’ospedale.

— Ho saputo dall’infermiera che Khai è passato — disse. La voce era controllata, ma gli occhi cercavano il volto di Hanh come se volessero accertarsi che fosse intera.

Hanh annuì, sorprendentemente serena.

— Sì. È venuto per il divorzio.

Quan si avvicinò, si sedette accanto al letto e posò le rose sul tavolino con una cura quasi protettiva.

— E tu… come ti senti?

Hanh lo guardò. E, per la prima volta da giorni, quello che le attraversò lo sguardo non somigliava al dolore.

— Meglio di quanto abbia mai ammesso con me stessa.

Quan prese una busta e gliela porse senza aggiungere altro.

— Questa è la copia che mi ha inviato il tuo avvocato. Mi avevi detto: “Se lui prova a muoversi per primo, dammela. Non voglio farmi trascinare.”

Hanh aprì la busta. Dentro c’erano fogli identici, ordinati, pronti. Nessun tremore stavolta: firmò con decisione, come se quella firma non fosse una perdita, ma un taglio di corda.

Poi alzò gli occhi verso Quan, e sembravano più luminosi persino sotto i neon.

— Da oggi basta. Basta vivere per dimostrare qualcosa. Basta sforzarmi di essere la moglie perfetta, quella che non pesa, quella che sorride anche quando sta crollando. Non devo più meritarmi l’amore di chi mi ha già lasciata.

Quan deglutì, lento.

— Io ci sono — disse piano. — Non per prendere il posto di nessuno. Solo… per esserci, se un giorno ne avrai voglia. O bisogno.

Hanh annuì. Una lacrima le scese sul viso, ma aveva un sapore diverso: non era disperazione. Era sollievo. Era aria che torna nei polmoni.

Una settimana dopo, Khai ricevette un pacco espresso.

Dentro trovò il decreto di divorzio firmato in ogni sua parte.

E un biglietto scritto a mano, con una grafia calma, nitida:

“Grazie per essertene andato.
Così non devo più trattenere qualcuno che aveva già mollato la presa.
Quella lasciata indietro non sono io.
Sei tu: perché hai appena perso per sempre una persona che ti ha amato davvero.”

Khai rimase fermo, il foglio tra le dita, come se improvvisamente la stanza fosse diventata troppo piccola.

In quell’istante capì la cosa che non aveva previsto: non era lui quello che aveva scelto. Era lui quello che era stato lasciato.

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