La mattina del mio 72° compleanno trovai sotto la porta una busta anonima: dentro, solo un foglio stampato. “Vestiti pesante. La barca parte venerdì alle 10:00.” Era lui, pensai: Darren, mio figlio, sparito da quasi quattro anni. Eppure quella parte di me che resterà sempre sua madre sussurrò: forse è cambiato.
Due giorni dopo ero sul molo di Annapolis, la sciarpa stretta al collo e il cuore in gola. La nave era piccola, niente lusso da cartolina. Darren mi aspettava con un sorriso facile; accanto, Lyanna, impeccabile come un ritratto. Un mezzo abbraccio, cortese e freddo. Io lo accettai come si accetta l’acqua quando si ha sete da troppo tempo.
La cabina preparata per me sembrava un gesto d’amore: coperte morbide, una nostra foto incorniciata, perfino i miei libri di poesia in fila su una mensola. A cena si sedettero ai miei lati con un’attenzione improvvisa, quasi soffocante. Lyanna mi versava la tisana prima ancora che allungassi la mano. Darren mi spezzettava il salmone in bocconi ordinati, come fossi fatta di vetro. Gentilezza, sì… ma con qualcosa di stonato sotto, come una nota falsa in un brano conosciuto.
La notte, dall’oblò, guardai l’acqua nera arricciarsi e pensai che forse quello era il loro modo di chiedere perdono. Eppure, dentro di me, una parte restava tesa. Alcuni silenzi tagliano.
Il secondo giorno mi svegliai pesante, le mani formicolanti, la testa come avvolta nella ovatta. “Sarà l’età”, mi dissi. A colazione Lyanna mi accolse con un sorriso troppo luminoso e una tazza fumante. “Miscela speciale”, dichiarò. Profumava di menta e di qualcosa di terroso, sconosciuto. Dopo poche sorsate, la mente si annebbiò: non vertigini, piuttosto una lente opaca calata sul pensiero.
La sera successiva il copione si ripeté: una nuova “tisana miracolosa”, miele, premura. Io sorseggiai appena, poi in cabina arrivarono nausea e un battito irregolare, come un uccello intrappolato nel petto. All’alba non avevo più dubbi: c’era qualcosa che non tornava. E l’unica cosa che poteva salvarmi era far finta di niente.
La terza sera, durante la cena, mi alzai per prendere aria. Nel corridoio in penombra notai una giovane cameriera vicino al carrello di servizio. Piegava tovaglioli, ma i suoi occhi non erano sul lavoro: erano su Lyanna, vigili, preoccupati. Quando passai, mi guardò dritta, serrando le labbra come chi prende una decisione.
Al mio posto trovai un tovagliolo piegato con cura. Sotto, appena visibile, un pezzetto di carta strappata. Lo feci scivolare in grembo. Tre parole mi gelarono il sangue: “Chiama il 911.” E sotto, più piccolo: “C’è qualcosa nel tuo tè.”
Non urlai. Non sussultai. Piegai il biglietto e lo infilai nella borsa con un gesto lento, quasi distratto. Sorrisi, ringraziai, lasciai la tazza intatta. E in quel momento, mentre loro continuavano a recitare la parte dei figli devoti, io capii: non ero più solo una madre in cerca d’amore. Ero una donna che doveva sopravvivere.
E da lì in avanti, ogni mio respiro sarebbe stato un piano.