Per far infuriare sua madre, l’erede di due oligarchi portò a cena una ragazza povera… ma quando entrò, il salone si gelò.

Kirill quella sera correva contro il tempo.

Erano già le otto passate e lui non aveva combinato nulla: niente regalo, niente fiori, neppure un cambio d’abito decente. Eppure non poteva permettersi ritardi: era il compleanno di sua madre, Svetlana Eduardovna Krasil’nikova, e per l’occasione la famiglia aveva organizzato una festa in grande stile nella villa di campagna.

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Il programma era stato stabilito con precisione militare: quella sera una cena “solo per pochi intimi”, ovvero parenti stretti e facce che, da anni, si ripresentavano con la stessa identica curiosità invadente. Il sabato successivo, invece, sarebbe arrivato il vero spettacolo: gala ufficiale, partner d’affari, fotografi, giornalisti e sorrisi calibrati.

Kirill detestava le riunioni di famiglia.

Non per la formalità, non per i brindisi, nemmeno per i discorsi del nonno. Il problema erano loro: le amiche di sua madre, le “zie” non imparentate ma eternamente presenti, le consuocere e le conoscenze che si sentivano autorizzate a sezionargli la vita come fosse un bilancio aziendale.

Quando ti sposi?
Quando ci dai un erede?
Ma tu lo capisci che il nome Krasil’nikov deve continuare?

E soprattutto: quella gara soffocante a presentargli la “fidanzata perfetta”, come se stessero mettendo all’asta un diamante raro. Una più radiosa, più ricca, più adatta della precedente. Una parata di sorrisi finti, curriculum impeccabili e sguardi interessati.

Prima bersagliavano Kamilla, la sorella minore, vent’anni e un carattere che non chiedeva permesso a nessuno. Ma da quando lei aveva iniziato a frequentare il figlio del celebre editore Erëmov, l’assedio si era dissolto all’istante. Ora, quelle stesse signore si limitavano a sospirare soddisfatte e a ripetere che sì, Kamilla aveva scelto proprio bene.

E così, come sempre succede, il faro era tornato su Kirill.

Lui, di solito, si arrangiava evitando i momenti clou: arrivava tardi, spariva presto, si rifugiava in terrazza con il padre o fingeva una telefonata urgente. Ma quella volta non poteva farlo. Mancare al compleanno di Svetlana avrebbe significato scontare settimane — forse mesi — di glaciale risentimento. Con sua madre non si scherzava: non al suo compleanno.

Con la testa piena di pensieri e la pazienza già a pezzi, Kirill si fermò davanti a una piccola fioreria vicino al mercato centrale. Non era il tipo di posto in cui metteva piede di solito: niente vetrine lucide, niente rose keniote con la targhetta, niente tulipani olandesi ancora “baciati dalla rugiada”, come amavano dire nei negozi chic.

Ma non aveva alternativa. I fiori gli servivano subito.

Entrò. Silenzio totale.

I mazzi in esposizione, però, erano sorprendentemente dignitosi: colori vivi, foglie fresche, niente di trasandato. Mancava solo una cosa: qualcuno che li vendesse.

— Buonasera! — chiamò verso il retro. — C’è qualcuno?

Nessuna risposta.

— Ehi!… Si può sapere se devo aspettare o no?

La sua voce rimbalzò sulle pareti del negozio vuoto. Kirill si morse la lingua, infastidito perfino da se stesso: non era abituato a perdere il controllo, eppure quella sera ogni secondo sembrava un’offesa personale.

Poi, dal retrobottega, comparve una ragazza con un camice blu scuro. Aveva lo sguardo acceso e il passo deciso di chi non ha nessuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa.

— Deve proprio urlare come al mercato? — lo rimproverò, secca. — Non poteva aspettare un attimo?

Kirill la fissò, incredulo. Non era abituato a quel tono.

— E perché dovrei aspettare? — sbottò. — Il vostro lavoro è vendere. Se volete che la gente torni, il servizio conta. E poi c’è concorrenza ovunque: posso uscire e andare altrove.

Lei alzò appena le spalle, calma come una persona che ha già visto di peggio.

— Allora vada. Chi la trattiene? Se non le serve niente, io torno di là.

Fece un mezzo passo indietro, come per congedarlo davvero.

— Aspetti! — Kirill si sentì quasi ridicolo a fermarla. — Va bene. Ho fretta, è vero. Non ho tempo di attraversare tutta la città. Mi serve un bouquet per una donna… diciamo di mezza età. Bella, elegante, benestante. È il compleanno di mia madre.

La ragazza lo squadrò con aria professionale, come se stesse compilando una scheda.

— Allora mi dica quanti anni ha.

Kirill aprì la bocca… e la richiuse.

— Non lo so.

Lei sorrise, divertita.

— Comodo.

— No, lei non capisce — si affrettò a spiegare lui, quasi offeso. — Mia madre nasconde l’età. Credo che a forza di nasconderla, ormai neanche se la ricordi.

La ragazza rise, una risata breve, pulita.

— Capisco perfettamente. Anche mia nonna Matrona non ricordava più quanti anni avesse. Noi scherzavamo dicendo che ne aveva sedici… anche se aveva superato i settanta da un pezzo.

Kirill rimase serio, come se quel riferimento gli avesse rovinato l’umore.

— Cosa c’entra sua nonna con mia madre? Mia madre non vuole invecchiare, punto. Faccia i fiori.

— Vanno bene le rose? — chiese lei, come se nulla la toccasse.

— Sì. Rose. Un bel bouquet. E in fretta.

Lei sospirò appena, poi disse con una tranquillità disarmante:

— Guardi che io non sono fiorista. Sono l’addetta alle pulizie. La fiorista, Antonina, da due giorni è chiusa in bagno con un mal di pancia tremendo. Io tengo d’occhio il negozio.

Kirill rimase senza parole.

Quella sì che era nuova. Lui, che viveva in un mondo dove ogni cosa aveva un responsabile, un assistente e un sostituto, si ritrovava a contrattare un bouquet con la donna delle pulizie.

— Va bene — disse infine, tra rassegnazione e fretta. — Leghi i fiori come può. Metta un nastro, faccia quello che vuole. Basta che non si sfaldi in mano.

Per la prima volta, la ragazza cambiò espressione: si animò, come se le avessero finalmente dato qualcosa di interessante da fare.

— Nessun problema.

E si mise al lavoro.

In pochi minuti, le mani le volavano tra steli e foglie con una sicurezza sorprendente. Kirill la osservò, quasi ipnotizzato. Non era solo brava: era elegante nei gesti. Aveva dita lunghe e polsi sottili, da pianista. Il viso pulito, i lineamenti regolari, gli occhi vivi — occhi che sembravano dire: non provare a prendermi dall’alto in basso.

“È bella,” pensò Kirill, e la cosa lo irritò quasi quanto lo stupì.

Con quell’aspetto, si disse, avrebbe potuto entrare in qualsiasi salotto dell’alta società e passare per una di loro. Anzi: anche vestita in modo semplice, avrebbe fatto sembrare tutto più costoso.

Gli venne un’idea assurda, improvvisa, arrangiata dalla sua nausea per la serata che lo aspettava.

— Come ti chiami? — chiese, senza davvero pensarci.

La ragazza alzò lo sguardo.

— Liza. Liza Snižina.

— Un bel nome.

Lei sorrise, ma con una sfumatura che non era allegria.

— Me l’hanno dato in orfanotrofio. Mi hanno trovata d’inverno su una slitta vicino al cancello. Per questo “Snižina”. Neve.

Kirill sgranò gli occhi, colto in contropiede.

— Ti hanno… abbandonata?

Liza fece spallucce, come se stesse parlando del tempo.

— Succede. I bambini vengono lasciati più spesso di quanto si creda.

Gli porse il bouquet finito: era armonioso, pieno, curato. Altro che “come può”.

Kirill lo prese, e restò un secondo a guardarla, indeciso se la sua idea fosse geniale o semplicemente folle.

— Liza… — disse piano. — Ti andrebbe di guadagnare in una sera più di quanto prendi in un mese?

Lei si irrigidì all’istante.

— Ma lei è fuori di testa? Chiamo la polizia!

— No, aspetta! — Kirill alzò le mani, quasi ridendo per la reazione. — Non è quello che pensi. Mi serve solo un favore. Per qualche ora dovresti… fingerti mia moglie durante una cena di famiglia. Poi ti riaccompagno a casa. Fine.

Liza lo fissò, confusa e sospettosa insieme.

— Perché dovrei farlo?

Kirill sbuffò.

— Perché stasera, come ogni volta, i miei parenti mi faranno il terzo grado: perché non sono sposato, perché non ho figli, perché non ho ancora “sistemato” la mia vita. Voglio fargli uno scherzo. Ti presento come mia moglie e finalmente smettono di tormentarmi.

Liza rimase in silenzio. Lo studiò a lungo, come se stesse cercando una crepa nella sua facciata.

Poi chiese, tranquilla:

— E allora perché non sei sposato davvero?

Kirill si lasciò scappare un sorriso stanco.

— Anche tu con questa domanda… Probabilmente perché non ho ancora incontrato il vero amore.

Lei arricciò appena le labbra.

— Strano sentirlo da uno ricco. Pensavo che per voi contassero più i soldi.

Kirill la guardò serio, senza ironia.

— No. L’amore viene prima.

Quella risposta, detta così, senza arroganza, la spiazzò.

Liza abbassò lo sguardo, come se stesse facendo un calcolo. Poi inspirò.

— Va bene. Accetto.

Kirill trattenne un sospiro di sollievo.

— Però devo aspettare la fiorista e cambiarmi — aggiunse lei. — Non mi presento in camice.

— Sono già in ritardo — disse lui, stringendo le chiavi in mano. — Sei vestita in modo… presentabile, adesso? Hai qualcosa per cambiarti?

Liza si offese subito.

— Sono sempre vestita in modo decoroso.

— Non volevo… — Kirill fece un mezzo sorriso, correggendosi al volo. — Volevo solo dire: stasera ci saranno occhi ovunque. E tu… tu puoi reggere benissimo. Ne sono certo. Ti do l’indirizzo e un anticipo. Dammi anche il numero, così ti chiamo e hai il mio contatto.

Poi aggiunse, come se stesse dando istruzioni prima di una missione:

— Quando hai finito, prendi un taxi e ci vediamo davanti alla villa. E una cosa: a tavola ci diamo del “tu”. E prova a guardarmi… come se fossi innamorata.

Liza sorrise di lato, finalmente divertita.

— Ci proverò. In orfanotrofio ero la star del laboratorio teatrale.

Kirill rise, per la prima volta quella sera sul serio.

— Perfetto. Allora mi sento più tranquillo.

E mentre usciva con il bouquet in mano, si accorse di una cosa strana: nonostante la corsa, l’ansia e quell’ennesima cena che lo aspettava come una condanna… gli era tornata voglia di respirare. Come se, in mezzo alla sua routine di ricchezza e doveri, qualcuno avesse appena acceso una luce.

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