Il fruscio delle ruote dei trolley rimbalzava contro le pareti del Terminal 3 come un tamburo insistente, quasi fosse il tribunale di un mondo che misura le persone dal bagaglio che trascinano.
«Sbrigati, Mia.» La voce di mio padre tagliò l’aria con la stessa precisione con cui sapeva tagliare me. «Ci stai facendo perdere tempo. Come sempre.»
Mi trattenni. Ingoiai la risposta e mi spostai di lato per lasciar passare Laya, la mia sorellastra, che avanzava davanti a noi come se la folla fosse un tappeto steso apposta. I suoi tacchi firmati facevano tic-tac sul pavimento lucido, un metronomo che segnava il ritmo della mia umiliazione.
Si sistemò i capelli biondi perfetti, poi mi lanciò uno sguardo intriso di falsa compassione. «Magari è emozionata», disse con un sorriso da vetrina. «È forse la prima volta che vede un aereo così da vicino.»
Mio padre rise, una risata breve e cattiva. «Non può permettersi nemmeno l’economy, Laya. Figurati se sa come funziona un aeroporto.»
La loro leggerezza era il mio peso. Alcune persone si voltarono, attirate dal tono e dalla crudeltà mascherata da scherzo. Sentii le guance accendersi, ma non dissi niente. Stringevo solo la tracolla del mio vecchio zaino, quello con la cerniera che a volte si inceppava, e fissavo le vetrate enormi dietro cui gli aerei brillavano nella luce del mattino.
Loro, invece, avevano già la vittoria in mano.
Laya sollevò la carta d’imbarco come fosse un trofeo. «Prima classe, papà. Champagne prima del decollo.» Poi, rivolta a me, aggiunse con una dolcezza velenosa: «Divertiti.»
Fece una pausa, come se stesse concedendomi una lezione gratuita. «Non devi essere invidiosa. Alcuni di noi sanno fare scelte migliori.»
Mi punse più di quanto avrei voluto ammettere. Due anni prima avevo fatto una scelta, e mi era costata tutto: avevo lasciato l’azienda di mio padre quando lui aveva sposato una donna più giovane di lui e più grande di me di soli cinque anni… e aveva consegnato a Laya ciò che io avevo costruito, progetto dopo progetto, notte dopo notte. Da quel giorno ero diventata l’ospite tollerata, la parentesi scomoda, la figlia “di prima”, buona solo per essere usata come esempio di ciò che non bisogna essere.
«Fammi un favore,» sussurrò mio padre avvicinandosi, come se mi stesse offrendo un consiglio affettuoso. «Non rovinare il nome della famiglia. Qui la gente osserva. La gente parla.»
Li guardai mentre si avviavano verso il gate, lucidi, sicuri, convinti che il mondo fosse disposto in corsie: loro davanti, io dietro. Li lasciai andare. Non per debolezza. Perché avevo imparato a risparmiare parole per il momento giusto.
E quel momento arrivò.
«Miss Monroe?»
La risata di mio padre si sentiva ancora, distante, come un’eco. Mi voltai. «Sì?»
Un uomo in uniforme si era fermato davanti a me. Spalle dritte, sguardo rispettoso, tono impeccabile. «Il suo jet è pronto, signora. Possiamo iniziare le procedure di pre-volo quando preferisce.»
La frase attraversò il brusio del terminal come una lama. Per un attimo, fu come se l’aria si fosse raffreddata.
Mio padre si bloccò a metà passo e si voltò di scatto. Laya rimase immobile accanto a lui, la mano sospesa con la carta d’imbarco. Attorno, alcune persone smisero di camminare. Una coppia vicino al banco check-in si girò. Persino un addetto alla sicurezza alzò lo sguardo.
Io, invece, inspirai piano.
Sorrisi con calma, come se tutto fosse perfettamente normale. «Finalmente,» dissi, controllando il tremito che mi saliva dal petto. «Cominciavo a stancarmi di restare in piedi.»
L’uomo fece un cenno e indicò oltre, verso l’accesso riservato. Una berlina nera attendeva vicino alla pista, lucida come un segreto appena svelato.
La bocca di Laya si aprì. «Il suo… jet?»
«Sì, signora.» L’ufficiale non esitò nemmeno un secondo. «Miss Monroe ne è la proprietaria.»
Guardai mio padre, e per la prima volta in anni vidi sul suo volto qualcosa che non era controllo: smarrimento. Incredulità. Un vuoto che non sapeva riempire.
«Avevi ragione, papà,» dissi piano, con quella gentilezza che fa più male di un urlo. «Non posso permettermi l’economy.»
Lasciai cadere una pausa, giusto il tempo di far capire a tutti che non era una battuta.
«Ormai mi sta troppo stretta.»
Poi mi voltai e mi incamminai senza fretta, con la schiena dritta e il cuore che martellava come se volesse sfondarmi le costole. Non correvo. Non avevo bisogno di farlo. Avevo passato troppo tempo a essere piccola per gli altri. Ora non dovevo dimostrare niente a nessuno.
Le porte della lounge privata si aprirono davanti a me. La luce del sole mi investì, e un vento leggero mi scompigliò i capelli come una carezza.
In quell’istante capii una cosa con una chiarezza quasi feroce: il vero decollo non era in cielo.
Era iniziato il giorno in cui avevo smesso di chiedere permesso per esistere.