Mio figlio ha trentacinque anni e vive ancora sotto il mio tetto. Gli amici mi ripetono che dovrei mandarlo via, ma come potrei trovare il coraggio di farlo?

Questa notte mi sono svegliato ancora prima dell’alba. Non per una sveglia, né perché avessi impegni urgenti. Mi hanno destato quei pensieri ostinati che ogni notte mi tormentano. In silenzio mi sono alzato, ho raggiunto la cucina e mi sono preparato un caffè.

Mi sono avvicinato alla finestra: fuori, la città stava già prendendo vita. Le luci delle case si accendevano una dopo l’altra, la gente si affrettava verso il lavoro, le auto solcavano strade umide di rugiada. Il sole faceva capolino tra i palazzi, tingendo il cielo di un arancione pallido.

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Dentro casa, invece, regnava un silenzio immobile.

Mio figlio Aleksej ha trentacinque anni e vive ancora con me.
La sua presenza è ovunque: piatti sporchi nel lavello, vestiti abbandonati sul divano, briciole sul tavolo. Di notte, la sua stanza è illuminata dal bagliore freddo del computer. So che non dorme: si rifugia nei giochi online, lontano da una realtà che non vuole affrontare.

Io, in questa casa, mi sento prigioniero.

Quante volte ho pensato di dirgli che è ora di crescere, di rendersi indipendente? Ma le parole, ogni volta, mi si bloccano in gola. Aleksej è cresciuto senza madre: lei se n’è andata quando era ancora un bambino, senza mai chiedere di lui. Per anni sono stato padre e madre insieme, lavorando senza sosta per non fargli mancare nulla. Forse, proprio questo, è stato il mio errore.

Ricordo quando un vicino mi chiese aiuto per spostare un mobile pesante. Chiamai Aleksej, pensando che mi avrebbe dato una mano:
— “Più tardi, papà, sono occupato.”
Quelle parole mi ferirono più del rifiuto stesso. Non era il mobile in sé, era il significato nascosto: gli avevo reso la vita così facile che non aveva mai dovuto affrontare vere difficoltà.

Gli amici me lo dicono chiaramente:
— “Se non lo spingi ad andarsene, resterà qui per sempre.”

E so che hanno ragione.
Ma come dire a un figlio che hai amato e protetto per tutta la vita che è arrivato il momento di camminare da solo?

Perché, nonostante tutto, lui è ancora quel bambino che correva tra le mie braccia quando aveva paura, che cercava il mio sguardo il primo giorno di scuola, che mi aspettava la sera per darmi la buonanotte.
Solo che ora quel bambino non c’è più: al suo posto c’è un uomo che non vuole crescere.

Sono stanco. Stanco di svegliarmi e trovare la stessa scena, stanco di promesse vuote. Aleksej non lavora stabilmente, e quel poco che guadagna lo spende in sciocchezze. La verità è che non sembra importargli.

Qualche giorno fa ho provato a parlarne ancora:
— “Aleksej, hai 35 anni. Io non ci sarò per sempre. Cosa farai quando resterai solo?”
Non ha risposto. Ha chiuso la porta della sua stanza, e quel silenzio mi ha fatto più male di un litigio.

Ora, seduto in cucina davanti a un caffè freddo, penso che forse gli amici hanno ragione: devo trovare la forza di mettere un punto. Non per punirlo, ma per dargli la possibilità di vivere davvero.

Perché amare un figlio non significa soltanto proteggerlo: a volte vuol dire lasciarlo andare.

E so che, quando sarà il momento, lo guarderò negli occhi e gli dirò:
— “Aleksej, è tempo che tu percorra la tua strada.”

Forse si arrabbierà, forse mi terrà il broncio per mesi. Ma un giorno, voglio credere, capirà che questo sarà stato il dono più grande che potessi fargli.

Il dovere di un padre non è solo quello di proteggere, ma anche di dire, al momento giusto:
— “Figlio mio, è ora di andare avanti.”

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