Natasha passò le dita sul vecchio legno, avvertendo la ruvidità dei tronchi invecchiati dal tempo.
Quella casa racchiudeva i suoi primi passi, i pianti infantili, le gioie semplici dell’infanzia. Pur datata, restava solida: il portico finemente intagliato e il piccolo giardino curato erano stati il suo rifugio sin da bambina. Dopo la morte della nonna Anna Michajlovna, l’abitazione era rimasta a lei, l’unica nipote che ci trascorreva ogni estate e quasi tutti i weekend.
«Il tetto regge? Nessuna perdita?» chiese Natasha, picchiettando la trave e scrutando il soffitto. L’inizio di maggio aveva portato piogge abbondanti e voleva sincerarsi che tutto fosse a posto.
«Sembra tutto asciutto,» rispose Lenja, seduto su uno sgabello con una tazza di tè. «Ogni anno la stessa domanda! Questa casa è solida, tua nonna se ne intendeva di edilizia.»
Natasha sorrise, ricordando la minuta nonna che dirigeva con piglio deciso la squadra di muratori durante il rifacimento del tetto.
«Sì, sapeva il fatto suo…» mormorò, sfiorando la vecchia stufa. «Ti ricordi la prima volta che siamo venuti qui da sposati? Ti stupivi di quanto calore trattenesse.»
Lenja annuì, ma nei suoi occhi non c’era più la dolcezza di allora. Erano sposati da sette anni: dopo le nozze lei si era trasferita da lui in città, nell’appartamento che aveva comprato prima di conoscerla. La casa di campagna era diventata per loro un rifugio dal caos urbano, il luogo dei barbecue, dell’orto, delle serate tranquille sul portico.
«Quanto restiamo oggi?» sbadigliò Lenja, posando la tazza. «Domani ho una riunione con dei clienti, dovremmo tornare stasera.»
Natasha soffocò un sospiro. A Lenja quel posto non era mai piaciuto davvero: all’inizio fingeva entusiasmo, poi aveva iniziato a trovare sempre più scuse per non venire o per ripartire subito. Negli ultimi anni lei vi si rifugiava quasi sempre da sola, o con l’amica Mascia.
«Io resto fino a domani, devo sistemare le aiuole. Mascia mi riaccompagna in città domani sera.»
La gioia sul volto del marito fu evidente. Dopo un’ora se ne andò, lasciandola sola con i ricordi.
La casa era intestata solo a Natasha, il suo unico bene personale. La custodiva con cura: non solo memoria della nonna, ma anche riserva di libertà. A volte la chiamava il suo “porto sicuro”. Non per mancanza d’amore verso il marito, ma perché ogni donna ha bisogno di qualcosa che sia solo suo.
La suocera, Liudmila Petrovna, aveva sempre disprezzato quell’abitazione. Alla prima visita, aveva arricciato le labbra osservando le stanze minute e i mobili d’altri tempi.
«Guarda come vivevano una volta,» aveva commentato, passando il dito sul davanzale. «Niente comfort, niente spazio. Perché ti ostini a tenere questa baracca?»
Quelle parole l’avevano ferita, ma era rimasta zitta. Col tempo, Liudmila diventò ancora più diretta: la stufa era scomoda, andare al pozzo una fatica, le zanzare insopportabili.
«Vendila, Natasha! È solo una spesa inutile. Ogni anno Lenja deve rattoppare qualcosa. A cosa ti serve?»
Con sorpresa, Lenja dava sempre ragione alla madre. Eppure lui aveva fatto ben poco per la manutenzione. L’anno prima era stata Natasha a riparare la recinzione, ingaggiando un vicino; il tetto era stato rifatto ai tempi della nonna. Con il tempo Lenja iniziò a considerare la casa come un peso: niente investimenti, niente cura, solo stizza ogni volta che c’era qualcosa da sistemare.
«Forse dovremmo venderla davvero,» aveva proposto una volta. «Compriamo una villa vera, vicino alla città, con gas e acqua corrente. Qui è scomodo.»
«A me sta bene così,» aveva ribattuto lei. «Qui sono cresciuta. Non si tratta di comodità.»
Per Natasha quella casa era molto più di quattro mura: era il legame con il passato e una garanzia per il futuro. Sui documenti c’era solo il suo nome, e questo le dava forza. Nei momenti peggiori delle liti con Lenja, si era immaginata di rifugiarsi lì per ricominciare. Fantasie, forse, ma era il suo punto fermo.
Quel giorno lavorò a lungo nell’orto. Alla sera, stanca ma serena, accese la stufa, preparò una cena semplice e si sedette sul portico, guardando la luna sorgere.
«Nonna, qui sto bene. Grazie per questa casa,» sussurrò nel buio.
Il giorno dopo, tornata in città, percepì subito qualcosa di strano. Lenja era nervoso, taciturno, incollato al telefono. La sera comparve Liudmila con aria trionfante.
«Lenjino, ho concluso un affare!» annunciò, togliendosi il soprabito. «Una famiglia perbene, imprenditori locali, offrono un ottimo prezzo!»
Lenja annuì senza guardarla. Natasha li fissava, confusa.
«Di che parlate?»
«Mamma ha trovato acquirenti per un terreno,» bofonchiò lui.
«Perché solo un terreno?» intervenne la suocera. «Anche la casa è carina, basta rinfrescarla…»
Un brivido di allarme attraversò Natasha.
«Quale casa?»
«Ma la tua, quale altra?» disse Liudmila con naturalezza, rovistando negli armadietti come fosse a casa sua. «Lenja mi ha detto che pensavi di venderla. La mia vicina conosce un agente, ha già trovato dei clienti interessati. Vogliono costruire villette lì: il tuo terreno è perfetto.»
Natasha sbiancò.
«Lenj, hai deciso di vendere la mia casa senza dirmelo?»
«Ma dai, ne avevamo parlato,» replicò lui, infastidito. «Quella baracca è solo una spesa.»
«Parlato sì, deciso no!» ribatté lei. «E tu non hai mai speso un euro per mantenerla!»
Liudmila stese dei documenti sul tavolo.
«Non fate i bambini,» sbuffò. «In famiglia ciò che è tuo è di Lenja, e viceversa.»
«Quella casa era mia prima di sposarlo. Non la venderò.»
La suocera la fissò come fosse una ragazzina capricciosa:
«Natashenka, abbiamo già sistemato tutto. Domani verranno a vedere la casa. La vendiamo, tanto tu non ci vivi.»
Quelle parole, dette con tanta arroganza, furono una frustata. Come se parlassero di una pentola, non dell’unico bene di Natasha.
Lenja si limitò a scrollare le spalle:
«Tanto non ci vai mai. È inutilizzata.»
Dentro Natasha qualcosa si spezzò: non un filo, ma una corda. Anni di silenzi e adattamenti, di decisioni prese da altri. Stavolta no.
«Non ci sarà nessuna vendita,» disse con voce sorprendentemente calma. «La casa è mia e non si tocca.»
«Che testarda!» sbottò Liudmila. «Domani lasciano pure la caparra!»
«Che non perdano tempo,» rispose Natasha andando verso la camera. «Nessuno vedrà nulla.»
Chiuse la porta alle spalle, ignorando le grida.
Quella notte non dormì. Come aveva potuto Lenja fare una cosa simile? Forse l’aveva sempre fatto, e lei non se ne era mai accorta?
Un pensiero le trafisse la mente: “E se andassero comunque a mostrarla? La chiave di scorta sotto il portico…”
All’alba preparò una piccola valigia.
«Dove vai?» chiese Lenja, perplesso.
«In campagna. Controllo il tetto.»
«Testarda! Pensa al nostro futuro, una villa comoda…»
«Non ti ho chiesto di vendere la mia casa.»
«Ma perché sei così attaccata a quel rudere? I soldi sarebbero di tutti!»
«La mia casa, le mie decisioni.»
Il viaggio in bus le parve interminabile. Arrivata, si fermò in ferramenta: nuove serrature e chiavistelli. Poi andò dal vicino Ivan Stepanovič, il tuttofare del villaggio.
«Mi aiuta a cambiarle?»
Lui non fece domande, lavorò veloce. In un’ora porte e finestre avevano nuove chiusure.
«Cosa è successo?» chiese infine.
«Nulla, voglio solo che si entri in casa mia con il mio permesso.»
Lui annuì comprensivo.
«Tuo marito l’ultima volta è venuto qui con amici. Gran baccano fino all’alba.»
«Senza di me?» Natasha restò di sasso.
Capì che nel matrimonio c’era una crepa ben più profonda. Raccolse la vecchia chiave di scorta dal nascondiglio, decisa: basta intrusioni.
In casa avvertì un’aria estranea: bottiglie, calzini sconosciuti, una felpa non sua. Ripulì tutto, buttando via ogni oggetto. A ogni gesto si sentiva più libera. Stava ripulendo la casa e la sua vita.
Poi inviò un messaggio secco al marito e alla suocera:
«La casa è mia. Decido io. Vendita annullata.»
Spense il telefono.
Quella sera sfogliò vecchie foto: la nonna sul portico il giorno in cui aveva ricevuto i documenti di proprietà. “Quando una donna ha un tetto suo, non teme nulla”, diceva sempre. “È la tua ancora in mezzo alla tempesta.” Aveva ragione.
Più tardi squillò il telefono fisso.
«Che ti salta in mente?!» urlò Liudmila. «Abbiamo già concordato tutto!»
«Senza di me?» chiese Natasha calma.
«Lenja disse che non ti opponevi!»
«Lenja ha mentito. La casa è mia. Non si vende.»
«Ci fai fare una figuraccia!»
«Direte la verità: avete cercato di vendere ciò che non vi appartiene.»
«Che ingrata!» piagnucolò la suocera.
«La famiglia chiede, non impone. Decisione definitiva: la casa resta mia.»
Riagganciò. Guardò il vecchio melo piantato dal nonno ondeggiare al vento. Come si poteva pensare di venderla senza chiederle nulla?
Una settimana dopo tornò in città. Lenja era pronto alla lite.
«Chiedi il divorzio per una casa?»
«Non per la casa. Per il rispetto che non c’è stato.»
Da allora nessuno tentò più di intromettersi. Natasha si trasferì in campagna per l’estate. In autunno affittò un piccolo monolocale in città.
La casa restò sua, inviolata. Il rifugio dei suoi weekend, il simbolo della sua libertà. Le parole della nonna le risuonavano dentro: finché hai il tuo tetto e la tua voce, non ti perdi. Mai.