«Devo aiutarti, perché sono tua sorella!» disse con fermezza Alla. «Sai bene in che situazione mi trovo. Ho ceduto il trilocale di mamma a mia figlia — aspetta un bambino, ha bisogno di una casa tutta sua. E Žora, con la salute che ha, non può vivere in condizioni difficili. E tu? Che differenza fa dove ti sistemi?»
Zinaida rimase muta, seduta sul divano. Fissava il vuoto davanti a sé, mentre fuori la notte calava e poche luci di auto tagliavano l’oscurità, riflettendosi nei vetri. L’appartamento era immerso in un silenzio greve, quasi opprimente. Tornata dal lavoro, la solitudine le pesava più del solito. Per anni aveva sognato una grande città, immaginando nuove opportunità, ma la realtà si era rivelata ben più dura delle aspettative: il lavoro era monotono, non aveva stretto amicizie, e la nostalgia della sua terra natale cresceva ogni giorno.
All’improvviso squillò il telefono. Zinaida trasalì, afferrò la cornetta.
«Pronto?» disse incerta.
«Sono io, Alla», la voce della sorella maggiore era tesa, nervosa.
Zina sentì un brivido di preoccupazione.
«Allochka… cosa c’è?»
Seguì un silenzio pesante, poi un sussurro:
«La mamma non c’è più.»
Le parole la paralizzarono. Sapeva della malattia, ma sentirlo così, improvviso e irrevocabile, fu uno choc. Le lacrime le rigarono il viso, i singhiozzi esplosero senza freni.
«Come…? Quando?» balbettò.
«Stamattina. Si è addormentata e non si è più svegliata. Ho potuto chiamarti solo ora…»
Zinaida ascoltò in silenzio, incapace di formulare pensieri, mentre Alla le spiegava i preparativi per il funerale e la fatica di gestire tutto.
«Verrai, vero?» chiese infine.
«Certo, compro subito il biglietto», promise Zinaida.
Dopo la sepoltura, rimase nella città natale ad aiutare Alla. Insieme sistemarono le cose di mamma, affrontarono la burocrazia, parlarono a lungo, ricordarono l’infanzia. Una sera, inevitabilmente, si affrontò il tema dell’eredità.
«Dobbiamo decidere per l’appartamento», iniziò Alla. «La situazione non è semplice.»
«Hai già pensato a qualcosa?» chiese Zina, intuendo la direzione.
«Sì. Mia figlia sta per sposarsi, e ha bisogno di una casa. A mio marito il trilocale è comodo per il lavoro. Insomma, per noi sarebbe perfetto.»
Zina rimase in silenzio, con il cuore che si stringeva.
«Tu invece… so che a Mosca non hai trovato quello che cercavi. Potresti tornare qui, occuparti della nonna. In cambio avresti il suo bilocale.»
La proposta aveva una logica, ma dentro Zina ardeva la sensazione di dover rinunciare ancora una volta alla propria vita per gli altri. Eppure accettò.
Gli anni che seguirono furono duri: la nonna era esigente, la casa fatiscente. Alla, intanto, si godeva il trilocale, raccontando al telefono quanto fosse comodo e luminoso, senza mai chiedere come stesse Zinaida. Alla morte della nonna, Zina rimase sola in quel bilocale logoro. Con due lavori, mille sacrifici e nessun lusso, riuscì a restaurarlo: nuovo impianto, finestre, mobili, elettrodomestici. Non era un appartamento elegante, ma finalmente era “suo”.
Passarono gli anni. Conobbe Vasilij, un uomo semplice, lavoratore, con cui iniziò a immaginare un futuro. Ma Alla non approvava, lo derideva come “rustico”. Poi, all’improvviso, la sorella la chiamò:
«Zin, indovina? Mia figlia è incinta! Ma qui in cinque non ci stiamo più. Ci serve spazio. Possiamo venire da te, giusto per un po’?»
Zina esitò, ma alla fine cedette. E quel “per un po’” divenne due anni. Alla e Žora occuparono l’appartamento come fosse il loro, criticando abitudini e scelte di Zina, mentre il rapporto con Vasilij si sgretolava: lui ricadde nell’alcol, diventò violento, e lei fu costretta a lasciarlo.
Alla proponeva sempre nuovi “compromessi”: «Perché non ti trasferisci alla casa di campagna? È spaziosa, con l’orto, ti lasceremo anche la macchina.» Sfinita dai litigi, Zina accettò. Ma quella che trovò non era una casetta idilliaca, bensì un rudere gelido e umido, con stufa malfunzionante e servizi inesistenti. La solitudine la schiacciava. Una notte, sfiorata dall’avvelenamento da monossido, decise di fuggire.
Tornò in città nel cuore della notte, aprì la porta del suo appartamento e si trovò davanti Alla, furiosa.
«Dove credi di andare a quest’ora? Sveglierai tutti!»
«Voglio tornare a casa mia», disse Zina con calma glaciale.
«E noi? Dove andiamo?»
«Non è più un mio problema. Avete tre giorni per andarvene.»
Le discussioni furono infinite, tra suppliche, minacce e insulti. Ma Zina non vacillò. Alla fine, sorella e cognato se ne andarono, non senza accuse velenose: «Hai rubato la mia parte, ti sei finta una santa. Se l’avessi saputo, non ti avrei lasciato nulla!»
Zina non rispose. Appena usciti, chiamò un fabbro e cambiò le serrature.
Quella sera capì una verità semplice: certi legami di sangue possono diventare catene, e l’unico modo per respirare davvero è spezzarle.