Sono entrato senza invito al pranzo della Festa della Mamma.
Mamma, con quel suo sorriso teso, mi ha accolto con un: «Non toccare nulla, bevi solo acqua. È tua sorella che ha pagato.»
Victoria, compiaciuta, ha rincarato: «Il Beluga non è per gente come te.»
Ho accennato un mezzo sorriso. Lei non sapeva che il pranzo da tremila dollari lo aveva già caricato sulla mia carta. L’ho lasciata credere vittoriosa per qualche istante, poi con un gesto ho annullato la transazione.
A quel punto, il mio pappagallo Ronnie, appollaiato sulla spalla, ha strillato a pieni polmoni: «Chiama l’avvocato!»
Il silenzio è calato come una lama: posate sospese a mezz’aria, bicchieri cristallizzati, gli sguardi inchiodati su di me.
Ho tirato fuori una busta e l’ho lasciata sulla sedia di mamma. Lei l’ha aperta tremando. Dentro, la conferma dell’annullamento del loro viaggio da 8.500 dollari. Il colore le è sparito dal volto.
Ho fatto un passo indietro, sorridendo. «Buona Festa della Mamma.»
Poi sono uscito.
Appena fuori, il telefono ha cominciato a vibrare senza sosta: quarantasette chiamate perse. Mamma, papà, Victoria. Rabbia, suppliche, accuse.
Io, per la prima volta, non provavo nulla. Solo una calma lucida, come se avessi finalmente strappato via la maschera a tutti loro.
E mentre il telefono continuava a vibrare, Ronnie ha ripetuto, quasi ridendo: «Chiama l’avvocato!»
Quella fu la mia vera liberazione.