Mi chiamo Elena, ho ventidue anni e da poco ho finito il college. Voglio raccontarvi una storia che riguarda la mia casa… o meglio, la casa di mia madre. Un luogo che è diventato mio solo dopo la sua morte, avvenuta quattro anni fa per un cancro intestinale.
La nostra era una casa insolita: due piani colorati da un azzurro ormai scolorito, persiane bianche, arroccata sulle colline poco distanti dalla città. Un posto abbastanza grande da accogliere una famiglia, ma abbastanza intimo da sembrare un rifugio. Lì ho trascorso l’infanzia: giochi in giardino, ginocchia sbucciate e limonate improvvisate. Poi, tutto si è spezzato.
Mia madre ha combattuto a lungo, con una forza che non dimenticherò mai. Ho ancora impressa l’immagine delle sue mani tremanti attorno alla tazza da tè preferita, che ancora oggi riposa sul davanzale della cucina. Lei era il cuore della nostra famiglia. Quando se n’è andata, mio padre è crollato in fretta. Si è risposato a tempo record, appena un anno dopo il funerale.
La nuova moglie si chiamava Marina. Aveva trentacinque anni, molto più giovane di lui, e con sé portava una figlia di nove anni, Inga. Io frequentavo il college locale e non potevo tollerare di vedere quella bambina trattare la mia casa come un parco giochi mentre mia madre era appena scomparsa. Quando l’anno seguente me ne andai a studiare in un altro stato, non mi voltai indietro.
Per anni ho evitato di tornare. Ma dopo la laurea la realtà si è fatta dura: prestiti studenteschi, lavori scarsi, la vita adulta che ti travolge. Così sono rientrata. La casa era ancora mia, intestata a me per volontà di mia madre, eppure mi accolsero come un’ospite indesiderata. Inga ormai adolescente, Marina con un sorriso freddo, mio padre invecchiato e distante. Mi sistemarono nella stanza degli ospiti. Nella mia stessa casa.
Ho taciuto, ma dentro di me ho cominciato a pianificare. Il silenzio non è debolezza: è strategia. Mia madre mi aveva insegnato la pazienza e io stavo imparando a usarla.
Le cose peggiorarono: feste di vino sul mio patio, battutine velenose su come avrei dovuto “andarmene e crescere”, Inga che lasciava disordine ovunque e chiamava la mia stanza “la soffitta di riserva”. Mio padre? Sempre più assente. La goccia che ha fatto traboccare il vaso fu il loro annuncio: partivano in vacanza alle Hawaii. Solo loro tre.
Quando la loro macchina è scomparsa dalla curva, ho chiuso la porta a chiave e mi sono seduta nella camera principale, quella che mia madre aveva arredato con amore. Ho pianto, poi ho iniziato a riprendermi ciò che era mio. Ho cambiato stanza, ho impacchettato le cose di Marina, ho fatto venire un fabbro e sostituito le serrature.
Al loro ritorno, le chiavi non funzionavano più. Urla, campanelli, proteste. Io ho aperto appena la porta: “Posso aiutarvi?” ho detto. Poi li ho cacciati. La polizia, chiamata da loro, non ha potuto far altro che constatare l’ovvio: la casa era legalmente mia.
Da lì è iniziata la vera guerra: lettere di avvocati, accuse, rabbia. Io ho risposto con documenti alla mano: testamento, atto di proprietà, calcolo degli affitti mai pagati. Alla fine, silenzio.
Ho donato tutto ciò che apparteneva a Marina. Ho piantato rose nel giardino, quelle che mia madre amava. Ho aperto le finestre e lasciato entrare la sua musica. Ho trasformato la stanza di Inga in un atelier di pittura, dove adesso insegno arte ai bambini della scuola elementare.
Papà è passato una volta a raccogliere le sue cose. Mi ha detto a bassa voce: «Lei non avrebbe voluto questo». Io ho risposto: «Non avrebbe voluto che tu la sostituissi così in fretta». Non ha replicato.
Oggi, sei mesi dopo, vivo in pace. Non era vendetta: era il mio modo per riprendere la mia voce, la mia forza e il posto che mi spettava. Questa casa non è più un campo di battaglia. È tornata a essere casa.
E ogni volta che guardo le rose fiorire, so che lei sarebbe orgogliosa di me.