«Qui non conti nulla e il tuo nome non esiste.»

Il cielo di novembre gravava sul camposanto come un coperchio di piombo. La pioggia era appena finita, ma l’aria sapeva di freddo umido, di giorni stanchi e consumati. Katja, quattordici anni, stava davanti a una tomba fresca: esile come un filo d’erba sotto il vento, tremava nella giacca leggera che non la proteggeva più dalle lame gelide che le attraversavano le ossa. La terra sotto le suole, ancora smossa, emanava odore di muffa e di fine. Davanti a lei, due croci. Due nomi. Due vite spente in un attimo da un incidente d’auto. E lei, sola, in un mondo crollato.

Il suo universo—quello in cui era cresciuta, aveva riso, aveva sognato e amato—si era disintegrato come un castello di carte. I frammenti le si erano conficcati dentro, lasciando ferite che non smettevano di sanguinare. Non era più la ragazzina che scherzava a scuola, disegnava cuori sui quaderni e fantasticava sull’università, sull’amore, su una famiglia. Ora era un’orfana. Sola. Smarrita. In quella città enorme e distratta, dove tutti correvano senza vederla, restava una sola persona pronta a porgerle la mano: la zia Antonina, sorella di sua madre.

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Le univa il sangue e le univa una casa: l’appartamento della nonna, due stanze raccolte in cui Katja aveva passato l’infanzia. Ogni angolo era un ricordo: lì aveva imparato a leggere, lì aveva riso con i genitori, lì aveva affondato il viso nel cuscino per piangere il primo amore perduto. Era tutto ciò che le rimaneva.

Al cimitero, Antonina la strinse come temendo che anche lei potesse dissolversi. Le spalle le sussultavano, lacrime le cadevano tra i capelli scuri della nipote.

— Piccola mia, non avere paura — mormorò, tenendole le mani. — Non ti lascerò. Sono qui. D’ora in poi vivrai con me. Siamo famiglia.

Quelle parole, come una scintilla di calore nel gelo, le arrivarono dritte al cuore. Katja vi si aggrappò con l’ostinazione di chi sta affondando e afferra una pagliuzza. Voleva crederci. Aveva bisogno di crederci: che da qualche parte esistessero ancora affetto, premura, attenzione.

Una settimana dopo, tutto cambiò.

Le condoglianze finirono. Il telefono tacque. La casa, rifugio appena promesso, divenne fredda come una cella. Antonina smise di piangere: si fece dura, sbrigativa, nervosa. Katja non era più la nipote, ma manodopera gratuita.

Le mattine iniziavano con un comando: «Alzati! I pavimenti non si lavano da soli!» Le sere terminavano con una stanchezza che le entrava nelle ossa. Strofinava piastrelle, pelava patate finché le mani non le si riempivano di vesciche, scrostava piatti unti come se il grasso si fosse attaccato alla pelle. Continuava a impegnarsi, in attesa di una parola gentile, di uno sguardo umano.

In risposta, silenzio. O un tagliente: «Che fai, la signorina? Muoviti!»

Antonina aveva un figlio, Sergej: l’orgoglio di casa, il fulcro del suo mondo. Studiava in capitale, tra lezioni, feste e regali costosi per la madre. A Katja riservava lo sguardo che si dedica a un soprammobile: nessun interesse, nessuna pietà. Un oggetto in più, utile solo a far andare avanti la casa.

Un pomeriggio, mentre Katja era china a lucidare una padella, Antonina si accomodò su una sedia come su un trono. Con una tazza di tè al bergamotto in mano, la fissò con una dolcezza appiccicosa.

— Katjuša — iniziò con voce insolitamente morbida — questo appartamento è piccolo per te. Stai crescendo, hai bisogno di un tuo spazio. Una stanza tutta tua, dove studiare, sognare, essere te stessa.

Le posò la mano ben curata su quella ruvida della ragazza, arrossata e con unghie spezzate.

— Ho parlato con le persone giuste. Sono d’accordo: venderemo l’appartamento della nonna… e ti compreremo una casa.

Katja restò di pietra. Il panno le scivolò di mano.

— Vendere… l’appartamento? E comprare una casa? — sussurrò, temendo che le parole si trasformassero in veleno.

— Sì, proprio il nostro appartamento — sorrise Antonina — ma pensa: una casa tutta tua, in città! È un po’ vecchia, certo, ma sarà tua. Un cortile, dei fiori, un’altalena… Ti vedo già d’estate in veranda con una tazza di tè. Tua madre avrebbe voluto il meglio per te.

La certezza negli occhi di Antonina e il calore finto nella voce finirono per convincerla. O forse non aveva alternative. Era l’ultimo filo a cui aggrapparsi per restare a galla.

Seguì la zia negli uffici dell’affido, dal notaio, in banca. Firmò senza leggere, segnò croci dove le indicavano, cercando negli occhi di Antonina una conferma di bontà. Non sapeva di firmare la propria rovina.

Passò un mese. Quando Antonina, riempiendo scatoloni, annunciò:

— È fatta, Katen’ka! La casa è nostra! Ci trasferiamo!

Arrivarono in un dedalo di strade dove villette tirate a lucido si alternavano a ruderi. La “nuova casa” era in fondo: intonaco scrostato, cancello storto che gemette all’aprirsi. Il cortile era un mare di erbacce. Dentro, un odore denso di marcio; la muffa scendeva dai muri come colature scure. Le carte da parati cadevano a pezzi, scoprendo assi marcite. Dal soffitto pendeva una sola lampadina nuda, come un condannato.

Katja rimase in mezzo alla polvere, con il viso rigato di lacrime.

— Zia Tonja… avevi parlato di un giardino, di fiori, dell’altalena…

Antonina scoppiò.

— Basta lagne! — urlò. — Una casa c’è? C’è. Un tetto, c’è? C’è. Sei un’orfana: non hai diritti da rivendicare! La scuola è qui vicino, ci vai a piedi. Se non ti sta bene, la strada è lì. Io sono la tutrice, decido io cos’è meglio!

In quell’istante Katja capì. Ma era tardi.

Antonina aveva previsto tutto: aveva trovato un venditore disperato, un ex alcolista disposto a firmare per spiccioli. Sul contratto la cifra era stata gonfiata di venti volte. Con quei numeri, mostrati all’affido, aveva ottenuto il permesso d’usare i soldi della nipote. Di fatto, Katja aveva finanziato la zia, che si era intascata la differenza.

Da lì la vita diventò un incubo stabile. Ogni giorno una prova. Ogni boccone, una mortificazione:

— Mangia, parassita! Tiro fuori soldi per te e ti lamenti pure?

Riparava finestre, turava crepe, andava al pozzo a riempire secchi perché il tubo era esploso la prima settimana. Antonina, invece, sfoggiava vestiti nuovi, vantandosi con le amiche d’aver “salvato” la nipote.

Katja taceva. Stringeva i denti. Imparava a resistere.

E, un giorno, vinse.

Si laureò in giurisprudenza con lode. Entrò in una grande azienda. Poi aprì il proprio studio: si specializzò in diritto immobiliare. Presto divenne un nome di riferimento in città. Clienti con affari da milioni pagavano parcelle che da sole superavano la busta paga di un intero reparto.

Sotto i tacchi lucidi e il tailleur impeccabile, però, continuava a pulsare una ferita vecchia: il tradimento, la solitudine, l’immagine di quella bambina davanti alla tomba, certa che il bene esistesse, e poi costretta a inginocchiarsi in una stanza marcita dalla muffa.

Non tornò per vendicarsi.
Tornò per ristabilire l’ordine.
Per la verità.
Per una vendetta che parlasse la lingua della legge.

Il campanello esplose nel silenzio come uno sparo.
Condominio di lusso. Portiere in livrea. Ascensore specchiato. Profumo caro nell’aria.

Aprì Antonina, avvolta in un kimono di seta con draghi dorati, un calice di vino in mano. Da lei emanava un’aria di opulenza—vaniglia, sandalo, un freddo acciaio—e quella sicurezza di chi crede che nulla possa toccarla. Sulla soglia, però, la realtà era pronta a presentare il conto.

— Chi cerca? — disse con voce affilata, misurando l’ospite dall’alto in basso.

Lo sguardo, truccato di scuro, indugiò sulle scarpe italiane, sulle unghie laccate color ala di corvo, sull’acconciatura fermata da una spilla d’argento. Poi arrivò a quel viso: glaciale, composto, scolpito.

— Non compro nulla — tagliò corto — e non faccio beneficenza. Ha sbagliato piano.

— Non chiedo niente, Antonina Petrovna — rispose la donna con una voce bassa, costante, come acqua che scava la roccia. — Sono venuta a riprendermi ciò che è mio.

Antonina aggrottò le sopracciglia. Quell’accento, quelle parole… qualcosa le punse la memoria. Uffici, timbri, un funerale, le lacrime recitate.

— Ci conosciamo? — provò a dire, cercando di tenere il controllo, ma una vibrazione la tradì.

L’ospite fece un passo avanti, uscendo dall’ombra delle scale nella luce fredda dell’atrio, dove un lampadario di cristallo tremolava tra specchi e superfici lucide. Il volto si rivelò: lineamenti netti, occhi scuri e vigili, la bocca ferma in una linea sottile.

— Non mi riconosci, zia? — disse piano, inchiodando ogni sillaba nel silenzio. — Sono Katja.

Il calice le tremò in mano. Il vetro tintinnò, vino rosso macchiò la seta: una goccia scura, come sangue antico. Il passato l’aveva raggiunta.

Antonina impallidì, divenne cenere. Indietreggiò inciampando nel tappeto.

Un battito di silenzio, poi paura. Poi arroganza di difesa.

— Katja? E allora? — provò a ridere. — Sono passati quindici anni! Tutto era regolare: affido, notaio, carte in ordine! Che vuoi dimostrare?

Parlava in fretta, cercando di convincere se stessa. Negli occhi, però, era entrato il panico.

— In apparenza era tutto pulito — rispose Katja, gelida. Aprì la ventiquattrore e posò una prima cartella sul tavolo.

— Primo punto: perizia retrospettiva sulla casa di via Zarëčnaja 47 al momento della vendita. Documento ufficiale, notarile, già ammesso in giudizio. Il valore reale era quaranta volte più basso di quanto dichiarato nel contratto che lei presentò all’affido per sbloccare i miei soldi.

La faccia di Antonina si contrasse; tentò di afferrare le carte, ma le mani le tremavano.

Katja aggiunse una seconda cartella, secca.

— Secondo punto: testimonianza dell’ex proprietario, Ivan Stepanovič. I miei collaboratori l’hanno rintracciato. Vive in periferia, è in pensione, ma ha memoria d’acciaio. Ricorda quando lo convinse a firmare il suo “affare”: ottantamila rubli in contanti, mentre sul contratto figuravano tre milioni e duecentomila, come da sua richiesta. Ricorda il suo cappotto rosso; i vicini confermano e testimonieranno. Lui ha già firmato una dichiarazione giurata.

Gli occhi di Katja la trapassarono.

— Si chiama truffa aggravata — disse come una sentenza. — Articolo 159, parte 4. Fino a dieci anni e confisca.

— Tu… non puoi! — ansimò Antonina, la corazza in frantumi. — Mi rovinerai! Ho figli, nipoti… Io ti ho cresciuta! Ti ho salvata!

— Non mi hai cresciuta — tagliò corto Katja. — Mi hai sfruttata. Non mi hai salvata. Mi hai spezzata.

Fece un passo avanti. La sua ombra cadde su Antonina come un verdetto.

— Hai una scelta — disse piano. — Una scelta che tu non mi hai concesso.
Opzione uno: domattina deposito tutto in Procura. Perquisizioni, sequestri, processo. Perdi l’appartamento, l’auto, la casa di campagna, i conti. E forse la libertà. I tuoi figli verranno a trovarti in carcere. I tuoi nipoti si vergogneranno del tuo nome.

Lasciò che il silenzio si posasse.

— Opzione due: entro un mese mi versi l’attuale valore di mercato della mia quota nell’appartamento di famiglia, più gli interessi per quindici anni d’uso indebito. Il calcolo è qui: ogni cifra ha il suo documento. E poi non ci vedremo mai più—né in tribunale, né altrove.

Negli occhi di Antonina dilagò il terrore. Capì che non era un bluff: era la fine di un’epoca.

Tre settimane dopo, sul conto di Katja arrivò una somma sufficiente per due appartamenti di pregio in centro. Antonina vendette tutto: casa, auto, villa. Si trasferì in un monolocale alla periferia da cui, anni prima, Katja era fuggita.

Katja acquistò un appartamento piccolo ma luminoso nel quartiere antico dov’era cresciuta: tra pozzanghere, risate con sua madre e gessetti sull’asfalto. Non provò esultanza. Non cercava rivalsa. Provò giustizia. Limpida come acqua di sorgente.

La memoria dei suoi genitori si ripulì dal fango del tradimento. Finalmente era tornata a casa—non solo con le chiavi in mano, ma con l’anima. Aveva resistito. Aveva vinto. Ed era libera.

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