«Diede un passaggio a uno sconosciuto sotto il diluvio. Sette giorni dopo, non credette ai propri occhi: il suo volto campeggiava al telegiornale.»

La notte sembrava tagliata nel ghiaccio: buia, sferzata da un vento rabbioso, la pioggia come aghi sull’asfalto. Le nuvole avevano inghiottito la luna e l’autostrada fuori città era un nastro nero senza fine. Solo qualche faro lontano provava che, da qualche parte, qualcuno ancora andava avanti. Al volante della sua vecchia Volga del ’95, Ivan Morozov batteva i piedi per riattivare la circolazione. Il riscaldamento, dopo un’agonia di sibili, aveva deciso di arrendersi proprio all’ennesima curva.

«Ma porca…» borbottò stringendo il volante, più per tenere ferme le mani che per guidare. Voleva solo tornare a casa, sprofondare sotto una coperta, ascoltare le risate dei figli, rubare calore al grembo di sua moglie e dimenticare quel mondo fuori, ostinato e cupo, che sembrava voler schiacciare ogni cosa.

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Il fascio dei fari gli sfoderò davanti, all’improvviso, una figura sul ciglio della strada.

Una donna.

Stava dritta come poteva, fradicia, minuta, quasi fusa con le ombre. Il cappotto le pendeva addosso, pesante di pioggia; i capelli le si incollavano agli zigomi; gli occhi, accecati dalla luce, mescolavano paura e richiesta. Non faceva il gesto dell’autostop: sembrava più quello di chi afferra l’aria per non affondare.

Ivan inchiodò, accese la freccia e scese nel frastuono della pioggia.
«Venga, presto!» gridò sopra il temporale. «Si congelerà fino alle ossa! Con un tempo così non escono nemmeno gli orsi, e invece…»

«Grazie…» disse lei, la voce che le tremava. «Sei… sei un angelo.»
Poi, all’improvviso, un passo indietro: «No, aspetta. La mia macchina è poco più avanti, dopo la curva. Si è spenta. Ho provato a chiamare un carro attrezzi, ma non c’è segnale. Magari tu…»

Ivan controllò il suo vecchio Nokia, fedele quanto la Volga.
«Niente rete. Qui la magia non funziona. Ma il distributore è a dieci minuti. Lì un telefono lo troviamo. E un po’ di tè caldo.»

La donna strinse la borsa al petto, come se dentro ci fosse tutto il suo mondo. Esitò.
Ivan ammorbidì la voce: «Mia madre ha la sua età. Se fossi lontano e lei si trovasse così, pregherei che un estraneo si fermasse. Non è niente di speciale: la porto a un posto sicuro.»

Si arrese a quelle parole semplici. Salì in macchina attenta a non bagnare troppo il sedile, come se temesse di lasciare in giro anche la propria paura. Per spezzare il gelo — quello di fuori e quello tra loro — Ivan cominciò a parlare: dei figli, Zhenya il maggiore con la testa da capo, Dasha con la testa tra le nuvole e le mani sempre sporche di colori, Liza che a cinque anni già manovrava tutti in casa. Della moglie, del quarto bimbo in arrivo. «Speriamo sia un maschio — Alexei, come mio padre», ridacchiò. Poi il tono gli scivolò un poco: «Il lavoro va come va. Stipendio in ritardo, capo in ferie perenni, le bollette più puntuali di tutti noi. Ma si resiste. Siamo gente che resiste.»

Non suonava come un lamento, piuttosto come un modo di rimettere la vita in fila, con le spalle dritte.

Raggiunsero il distributore. La donna — «Valentina Pavlovna», si presentò — tirò fuori il portafoglio.
«Quanto ti devo?»

Ivan scoppiò a ridere di gusto. «Nemmeno un kopeko! A casa nostra abbiamo una tradizione: la chiamiamo la Catena della Gentilezza. Aiuti qualcuno e gli chiedi soltanto di aiutare il prossimo. Così il bene non si perde, rotola e cresce come una palla di neve. Tocca a lei farla proseguire.»

Valentina lo fissò, seria, quasi a voler capire fin dove arrivassero quelle parole. Poi annuì piano. «La porterò avanti.»

Chiamò il soccorso stradale e, tremando, entrò nel piccolo bar del distributore. Una cameriera incinta, con occhiaie profonde e un sorriso vero, le mise addosso due asciugamani asciutti, le portò una coperta, una tazza di tè forte e una fetta di torta che profumava di casa. Un gesto alla volta, rimise insieme la sua sera.

«Quanto devo?» chiese Valentina al termine.
«Duecentocinquanta,» rispose la ragazza.

Valentina appoggiò sul piattino una banconota da mille. «È troppo!» protestò la cameriera.
«Un momento.» Valentina infilò, mentre l’altra cercava il resto, altre banconote sotto la teiera — duemila rubli — insieme a un biglietto scritto ordinato:
«Qualcuno ha fatto lo stesso per me. Non mi deve nulla. Continui soltanto la Catena della Gentilezza.»

La ragazza tornò, vide, capì. Le guance le si inumidirono. Non erano lacrime di sorpresa o di sollievo: era il pianto calmo di chi scopre che nel mondo, a volte, il bene arriva senza bussare.

Quella notte, rincasando tardi, la cameriera trovò il marito addormentato sull’ingresso, barba incolta e una vecchia cicatrice al sopracciglio. Sul divano, le tre figlie in fasce diverse del sonno: la grande con un libro mezzo aperto, la media abbracciata a un foglio pieno di colori, la piccola stretta al suo coniglio di pezza. Lei si chinò e sfiorò la fronte dell’uomo. «Ti amo, Vanya Morozov…» mormorò.

Passarono alcuni giorni.

Ivan, con la moglie, guardava le notizie in TV. Schermo blu, jingle del telegiornale, e all’improvviso il suo volto in primo piano. La voce dell’annunciatore: «La storia di un automobilista che non ha tirato dritto sotto il temporale sta facendo il giro del Paese. Valentina Pavlovna — celebre chef e proprietaria di una catena di ristoranti — ha raccontato sui social di come un uomo, con un’auto d’altri tempi, le abbia letteralmente salvato la vita. Ha avviato una raccolta fondi per la famiglia Morozov, promettendo di raddoppiare ogni rublo donato.»

Cento mila. Poi duecento. Poi trecentoottantamila. Donazioni da Vladivostok a Murmansk, da villaggi senza nome e metropoli rumorose. Ogni messaggio raccontava un pezzetto della stessa cosa: «Anche io, una volta, sono rimasto bloccato. Adesso tocca a me far girare la catena.»

Un mese dopo, in ospedale, Ivan teneva tra le braccia un neonato. Accanto a lui, una donna in tailleur, sguardo caldo e un sorriso che le addolciva il viso: Valentina Pavlovna.
«Se non vi dispiace,» disse, «vorrei essere la madrina di questo piccolo.»

Ivan la guardò, poi guardò il bimbo. «A una condizione,» rispose con la sua ironia mite. «Continuiamo la Catena.»

«Promesso,» fece lei.

E la catena continuò. Perché la gentilezza non si esaurisce: quando trova passaggio, ricomincia sempre da capo.

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