«Caro maritino, mentre tu chiudevi le tue “importanti trattative”, anch’io ho ricevuto qualche notizia», disse lei con un sorriso, guardando il volto impallidito del marito, mentre venti invitati trattenevano il fiato in attesa dello scandalo.
Ma per capire tutta la dolcezza di quell’istante, quella vittoria forgiata nella fornace del tradimento, bisogna tornare indietro di qualche settimana, a quella sera in cui il suo mondo crollò, frantumandosi in migliaia di schegge silenziose e taglienti.
La pioggia sembrava non finire mai. Batteva monotona contro i vetri della loro lussuosa villa nel prestigioso quartiere di Brera, disegnando sui vetri oscurati rivoli bizzarri che scivolavano giù come lacrime del cielo stesso. Sofia Lorenz, quarantadue anni, con ancora tracce di una bellezza passata ma lo sguardo spento, stava appoggiata con la schiena alla parete fredda, dietro la porta della cucina. Il cuore le martellava così forte che ogni colpo le pulsava nelle tempie. Stringeva convulsamente lo smartphone, come fosse un’arma: aveva appena ascoltato una conversazione che avrebbe cancellato per sempre diciassette anni della sua vita.
«Amore mio, non preoccuparti», sentì la voce vellutata di Artiom, suo marito, provenire dallo studio. «Mia moglie è troppo presa dalle sue stupidaggini di beneficenza per accorgersi di qualcosa. Vaga tra i suoi quadri e le sue noiose aste. Presto saremo liberi, Alisa.»
Sofia rimase immobile, tutta orecchi. «Alisa». Quel nome suonò come una sentenza. Alisa Vorontsova, giovane ma già incredibilmente popolare pittrice, ventitré anni, capelli rosso fuoco e occhi color del fogliame di primavera. Era piombata nel loro giro mezzo anno prima, come una cometa luminosa, accecando tutti con la sua energia e il suo talento. Proprio quella donna che, con un frivolo colpo di pennello, stava distruggendo tutto ciò che Sofia aveva costruito con amore e pazienza.
Lo scricchiolio della porta dello studio la fece sobbalzare e correre alla macchina del caffè. Le dita non le ubbidivano, la capsula le scivolò. Artiom entrò in cucina sfoggiando il suo sorriso d’ordinanza, levigato da anni di negoziati — una maschera perfetta sotto cui sapeva occultare benissimo la sua vera natura.
«Ciao, tesoro», disse, avvicinandosi per il bacio rituale sulla guancia.
Sofia indietreggiò d’istinto: avvertì un profumo estraneo — pungente, con note di tabacco e patchouli. Non il suo. Decisamente non il suo.
«Com’è andato il tuo vernissage benefico?» chiese lui, scrutando il frigorifero.
«Bene», riuscì a dire; la voce le uscì roca, quasi estranea. «Abbiamo raccolto una somma importante per l’hospice. Un hospice pediatrico, Artiom.»
Lui annuì distratto, già con lo sguardo inchiodato allo schermo del telefono.
«Perfetto. Senti, stasera devo fermarmi. Trattative urgenti con partner giapponesi. Sai com’è, il tempo non si sceglie.»
Un’altra bugia. Sofia lo sapeva con la stessa certezza con cui sentiva battere il proprio cuore. Di partner giapponesi non ce n’erano. C’era solo Alisa — coi suoi cavalletti, gli abiti eccentrici e quella risata sfrontata che, a quanto pareva, suonava per suo marito più dolce di qualsiasi sinfonia.
«Tarderai molto?» chiese fissandogli la schiena, sforzandosi di non far tremare la voce.
«Non so. Non aspettarmi. Guardati uno dei tuoi film d’essai, rilassati», buttò lì avviandosi verso l’uscita. «Te lo meriti da tempo.»
L’amara ironia di quelle parole le bruciò dentro. Un tempo, agli inizi, lui idolatrava la sua raffinatezza, la passione per l’arte, il suo profondo mondo interiore. Ora tutto questo, per lui, era sinonimo di noia. Ovviamente lo spirito ribelle e un corpo giovane erano molto più attraenti.
Dopo la sua uscita, Sofia si lasciò cadere sul divano di velluto del soggiorno immerso nel buio. Lo sguardo scivolava sulle pareti coperte di fotografie: il matrimonio, i primi anni difficili della loro impresa, le notti insonni quando lei era per lui contabile, responsabile marketing e sostegno morale; i viaggi, i progetti per un futuro che ora odorava di cenere. Diciassette anni. All’improvviso tutto si rivelò un miraggio, un magnifico fondale che nascondeva il vuoto.
Lo squillo tagliente del telefono la strappò all’inerzia. Sul display lampeggiava «Irina» — la sua migliore, e forse unica vera amica.
«Sof, non voglio spaventarti, ma li ho appena visti», parlò Irina in fretta, senza preamboli. «Al “Caravan”, quel ristorante di moda. Artiom e quella… pittrice. Seduti in un angolo, mano nella mano. E lui la guardava come non guarda te da dieci anni.»
Le parole dell’amica non furono una rivelazione, ma il dolore non diminuì. A Sofia mancò il respiro, la vista si offuscò.
«Sei… sicura?» sussurrò.
«Assolutamente. Mi sono avvicinata fingendo di scegliere il vino al bancone. Parlavano di un viaggio a Venezia. La chiamava “la mia musa”. Mi dispiace tanto, cara.»
Sofia riagganciò in silenzio. L’oscurità nel soggiorno si fece più densa, quasi tangibile. Ripensò agli ultimi mesi: le “trasferte” sempre più frequenti, i sussurri al telefono di notte, la nuova mania per la palestra, l’improvviso interesse per l’arte contemporanea. Tutti segnali d’allarme che aveva ignorato, convincendosi che fosse solo gelosia. Ora la verità stava lì, nuda e ripugnante. Artiom non solo la tradiva. Si era innamorato. E, a quanto aveva sentito, stava per andarsene.
Come in un sogno, si alzò e andò nel suo studio. Se la verità doveva finirla, che accadesse subito. Rovistò con metodo nei cassetti della scrivania. Tra pile di documenti trovò ciò che cercava: scontrini di ristoranti chic, di una gioielleria, prenotazioni in boutique-hotel — luoghi dove con lei non era mai stato.
Ma il colpo più devastante l’attendeva nel cassetto segreto in basso. Una cartella con il logo dello studio legale «Korf & Partners». Dentro — una bozza di accordo di divorzio e il modulo di richiesta di scioglimento del matrimonio. Artiom non stava solo sognando un nuovo futuro. Lo stava già costruendo, e in quel futuro non c’era posto per lei.
Le lacrime sgorgarono copiose, calde e amare. Non l’avevano semplicemente tradita. L’avevano cinicamente scaricata, come una macchina obsoleta.
Passarono due settimane. Sofia visse in uno stato di ibernazione emotiva, recitando sottomissione mentre Artiom continuava il suo doppio gioco, sempre più imprudente. Ogni mattina usciva «al lavoro», ogni sera tornava con nuove frottole, e lei annuiva soltanto, accumulando in fondo all’anima una rabbia fredda, cristallina.
Una mattina nebbiosa di novembre, con il sole che a stento trapelava tra le nubi, il campanello suonò insistente.
Sofia, ancora in camicia da notte, guardò con curiosità nel videocitofono. Non aspettava nessuno, e Artiom era già uscito per un «incontro cruciale con gli investitori» — ennesimo eufemismo per un appuntamento con Alisa.
«Signora Lorenz, sono l’avvocato Leonardo Vitali dello studio “Vitali & Associati”. Devo discutere con lei una questione urgente riguardante un’eredità.»
Un’eredità? A Sofia non erano rimasti parenti, e di un avvocato Vitali non aveva mai sentito parlare. Forse un errore. O una trappola.
«Un minuto», rispose, infilando in fretta una veste di seta.
L’uomo sulla porta era impeccabile. Sui sessant’anni, capelli grigi pettinati con precisione, abito grigio scuro su misura. In mano una ventiquattrore in pelle di rettile; tutto in lui emanava rispettabilità.
«Mi scuso per la visita imprevista, signora Lorenz», disse con un lieve inchino. «La questione è molto delicata e ho ritenuto opportuno comunicarla di persona.»
Lo invitò nel piccolo salotto che affacciava sul giardino d’inverno, il suo luogo prediletto di quiete. L’ironia era amara: stava accogliendo uno sconosciuto nel cuore della sua casa che il marito aveva già mentalmente regalato a un’altra.
«La signora Isabella Moretti è venuta a mancare tre settimane fa», iniziò l’avvocato disponendo dei documenti sul tavolo. «Aveva 91 anni. Era l’ultima proprietaria della catena di hotel “Moretti” e di una importante collezione d’arte rinascimentale. Secondo le sue ultime volontà, lei è l’unica erede di tutto il suo patrimonio.»
Sofia lo fissò incredula.
«Temo ci sia un errore. Io non conosco la signora Moretti.»
L’avvocato sorrise con mitezza ed estrasse una fotografia consunta.
«Forse questo le rinfrescherà la memoria.»
Nello scatto, una bambina di circa sette anni sedeva in grembo a un’anziana dal volto solcato di rughe ma con occhi incredibilmente vivi e buoni. La bambina era lei, la piccola Sofia. E la donna… la donna all’improvviso le parve familiare.
«Questa foto è stata scattata all’orfanotrofio “Santa Speranza” a Firenze, dove lei ha trascorso tre anni dopo la tragica morte dei suoi genitori», spiegò l’avvocato. «La signora Moretti era benefattrice dell’istituto. Lei era la sua prediletta. La chiamava “la mia piccola primadonna”.»
Brandelli di ricordi attraversarono la mente di Sofia come lampi. Zia Bella. Così la chiamavano tutti. La donna che portava non solo giocattoli e dolci, ma interi mondi racchiusi nei libri d’arte. Insegnava a distinguere le sfumature del tramonto nei quadri di Turner e a sentire la passione nel marmo di Michelangelo.
«Io… ricordo», sussurrò, e le lacrime le scesero da sole. «Diceva che la bellezza salverà il mondo.»
«Proprio così. Ha seguito la sua vita per tutto questo tempo. Sapeva del suo matrimonio, della sua attività benefica. Era orgogliosa di lei. Per lei, era la figlia che non poté avere.»
Sofia sentì sgorgare nella sua anima inaridita una sorgente di speranza. Mentre il marito la cancellava dalla sua vita, c’era qualcuno che per anni l’aveva custodita nel cuore.
«Che cosa… mi ha lasciato, esattamente?» chiese con voce tremante.
L’avvocato aprì una cartella con lo stemma dei Moretti.
«La villa “Aurora” in Toscana, una dimora del XVIII secolo con vigneti e uliveto. La catena di dodici boutique-hotel “Moretti” tra Italia e Francia. Conti bancari, azioni, obbligazioni. Valore complessivo stimato intorno ai venti milioni di euro. E la sua collezione privata d’arte, inclusi alcuni dipinti di antichi maestri.»
Cifre e fatti rimasero sospesi nell’aria, irreali. Le girava la testa. Da moglie umiliata e abbandonata, si stava trasformando in una delle donne più facoltose del Paese.
«Inoltre», proseguì porgendole una busta di carta spessa, ingiallita, «questa è una lettera personale per lei. E c’è un’ulteriore condizione. L’eredità le viene trasferita immediatamente, ma la signora Moretti ha espresso il desiderio che lei continui la sua opera: sostenere i giovani talenti nell’arte. Credeva che i geni non nascessero solo nei palazzi.»
Sofia prese la busta. Fuori la pioggia era cessata e un raggio di sole, filtrando tra le nubi, le illuminò la mano come una benedizione.
«Devo firmare qualcosa?»
«Più tardi. Prima legga la lettera. La signora Isabella le attribuiva un significato speciale.»
Sofia aprì con cura la busta. La carta profumava d’incenso e di antico. La grafia, elegante, era resa incerta dall’età.
«Mia cara, adorata Sofia. Se stai leggendo queste righe, il mio tempo è finito. Perdona una vecchia se è rimasta nell’ombra per tutti questi anni. Non volevo essere un peso né influenzare le tue scelte. Ho solo osservato e gioito dei tuoi successi da lontano. Ricorda, bambina mia: una donna con l’arte nell’anima è invincibile. Il denaro è solo uno strumento. Usalo per costruire la tua fortezza e riempirla di bellezza. Ho sempre creduto che avresti compiuto qualcosa di grande. Forse la tua ora è appena giunta. Con infinito amore, tua zia Bella.»
Sofia scoppiò in pianto. Ma erano lacrime di purificazione, di forza. Sentiva che, con ogni lacrima, la lasciava la vittima della moglie tradita e nasceva una donna nuova.
Quando alzò gli occhi sull’avvocato, dentro le bruciava un fuoco di determinazione.
«Dove devo firmare?»
Dieci giorni dopo la visita dell’avvocato Vitali, Sofia custodiva il suo segreto come il più grande dei tesori. Aveva visitato villa Aurora — un luogo di bellezza ultraterrena, dove il tempo sembrava fermo. Aveva incontrato l’amministratore della catena alberghiera, che le mostrò report impeccabili e le parlò delle tradizioni della famiglia Moretti.
Nel frattempo, dentro di lei era maturato un piano perfetto, calibrato al millimetro.
Quella sera, mentre Artiom si preparava al suo sontuoso banchetto per il «takeover di un nuovo brand promettente» (Sofia sapeva che voleva soltanto presentare Alisa al suo giro come nuova musa), lei finse un’emicrania e si ritirò in camera. Ma invece di sdraiarsi al buio, attese.
Alle nove in punto, un colpo convenuto bussò alla porta. Era Irina, con Viktor, investigatore privato dal volto da filosofo stanco, ed Elizaveta Petrovna, la sua avvocata di fiducia, brillante specialista in diritto di famiglia.
«Sei sicura di quello che vuoi fare?» chiese Irina stringendole la mano. «Potresti semplicemente andartene nella tua Toscana e dimenticare tutto come un brutto sogno.»
Sofia scosse il capo; nei suoi occhi scintillò l’acciaio.
«Diciassette anni, Ira. Per diciassette anni sono stata la sua ombra, la sua consigliera, il suo retroguardia. Ho rimandato la mia tesi perché lui potesse costruire la sua “imperium”. Ho rinunciato alla maternità perché riteneva i figli un ostacolo alla carriera. E ora intende barattarmi con una ragazza più giovane del suo portafoglio. No. Non gli permetterò di cancellarmi. Conoscerà il prezzo del suo tradimento.»
Viktor, senza dire una parola, dispose sul tavolo alcune cartelle.
«È tutto qui, Sofia. Come ha chiesto. Foto, video, trascrizioni. Suo marito, per dirla con garbo, non è stato prudente.»
Le fotografie parlavano da sole: Artiom e Alisa nello studio, i loro baci appassionati alla finestra aperta, le passeggiate notturne. Ma l’asso erano i documenti finanziari.
«Le ha comprato un atelier in centro», spiegò Viktor, «e ha trasferito cinquecentomila euro dal vostro conto comune sul suo conto personale. Giuridicamente, distrazione di beni coniugali.»
Elizaveta Petrovna, donna dallo sguardo affilato e dalla reputazione immacolata, studiava le carte.
«Con queste prove non solo vinceremo la causa di divorzio con il massimo delle compensazioni, ma potremo avviare un procedimento penale per appropriazione indebita. E, considerata la sua attuale… posizione finanziaria», accennò un sorriso, «ha molto da perdere.»
Sofia li mise al corrente del suo segreto, strappando un giuramento di silenzio. L’ora X si avvicinava.
«Quando pensi di farti sentire?» chiese Irina.
«Domani. Proprio a questo banchetto. Artiom ha affittato tutto il piano del “Cigno Bianco”. Ha invitato partner, clienti chiave e, naturalmente, Alisa sarà lì come sua “ispirazione”.» Sofia pronunciò l’ultima parola con gelido disprezzo. «Vuole incoronarla in pubblico. Ebbene, lo aiuterò a rendere questa serata indimenticabile.»
Elizaveta Petrovna tirò fuori una pila di documenti.
«Ho preparato l’atto di divorzio e l’istanza di sequestro dei suoi asset. Con simili prove non potrà nemmeno fiatare.»
«E… la sorpresa speciale per mademoiselle Vorontsova?» chiese Sofia.
Viktor annuì.
«Tutto pronto. Le mie fonti nel mondo dell’arte hanno fornito dettagli interessanti. Pare che la sua giovane rivale non sia poi così limpida. La sua ultima mostra di clamore è il frutto di una “collaborazione” molto particolare con un anziano mecenate. Lo scandalo sarà notevole.»
Sofia sentì una scarica di potere, come un fulmine. Per la prima volta dopo anni si sentiva guida e non guidata. Padrona del proprio destino.
«Devo fare una telefonata», disse andando al secretaire. Prese un semplice telefono a conchiglia, comprato per simili scopi. «L’ultimo tocco.»
Compose un numero trovato nella rubrica di Artiom. Risposero al primo squillo.
«Pronto?» Una voce giovane, melodiosa.
«Alisa? Sono Sofia Lorenz.»
Dall’altra parte calò un silenzio di morte, carico di shock.
«Io… non la conosco.»
«Oh, non essere modesta, cara. Sappiamo entrambe che non è così. Volevo solo avvertirti che domani sarò anch’io al banchetto.»
«Artiom non ha detto…»
Sofia mantenne un tono dolce, quasi mielato.
«Ti assicuro che sarà la serata più memorabile della tua vita. A domani.»
Riagganciò senza darle il tempo di replicare. Le amiche la fissavano con ammirazione e un filo di timore.
«Sofia», sussurrò Irina, «quasi non ti riconosco. Ma, accidenti, sono fiera di te!»
«Comincio a piacere anche a me», rispose Sofia, guardando il proprio riflesso nella finestra scura. «Ho permesso troppo a lungo agli altri di scrivere la mia storia. Zia Bella non mi ha lasciato solo denaro. Mi ha dato il pennello per dipingere il mio quadro. E comincerò con questo capolavoro.»
Il ristorante «Cigno Bianco» era l’emblema del lusso: lampadari di cristallo, pareti rivestite di seta, finestre panoramiche sul lungofiume inondato di luci. Artiom aveva affittato l’intero secondo piano per celebrare il suo trionfo — la firma con la maison «Van der Wal» — e presentare Alisa come nuova musa e, come molti già intuivano, futura sposa.
Sofia arrivò alle otto in punto, in un abito blu notte di Valentino che prendeva polvere da anni nell’armadio. I capelli raccolti in uno chignon severo ma elegante; sulle labbra un sorriso enigmatico, quasi sereno. Quando attraversò la sala, le conversazioni si spensero. Artiom, che parlava animatamente con alcuni ospiti importanti, la vide e rimase di sasso, il calice in mano.
«Sofia? Non mi aspettavo… Avevi detto che stavi male», balbettò avvicinandosi, con il panico negli occhi.
«Caro, potevo forse perdermi un evento così importante?» disse radiosa. «In fondo, siamo ancora una famiglia. Una squadra.»
Sottolineò appena «ancora» e all’occhio di Artiom tremò un nervo. Alisa, al centro dell’attenzione nel suo audace abito scarlatto, impallidì e fece un passo indietro.
«Certo», proseguì Sofia rivolgendosi agli invitati, «anch’io ho una bella notizia. Sono sicura che Artiom non abbia ancora avuto il tempo di dirvela.»
Una ventina di ospiti — il gotha del mondo degli affari — si raccolsero curiosi. Artiom tentò di riprendere il controllo.
«Sofia, magari dopo? Non mischiamo il personale col lavoro.»
«Oh, ma questa è proprio una questione di lavoro, caro», ribatté lei estraendo una cartella di pelle dal clutch. «Vedete, mentre tu eri immerso nelle tue grandi operazioni, è successo qualcosa anche a me. Ho ereditato la catena di hotel “Moretti” e la villa “Aurora” in Toscana.»
Cadde un silenzio stupefatto, poi un mormorio di ammirazione. “Moretti” era sinonimo di stile impeccabile e rispettabilità.
«Dio mio! Congratulazioni!» esclamò Stepan Ignatiev, uno dei principali investitori di Artiom. «I “Moretti” sono una leggenda! È un’intera impero!»
Sofia annuì con grazia.
«Sì, una vecchia buona impero. Me l’ha lasciata la mia madrina, Isabella Moretti. È stato… inaspettato e molto commovente.»
Il volto di Artiom divenne di cera. Aveva sempre considerato Sofia finanziariamente dipendente, un bell’ornamento un po’ appassito. Ora lei oscurava con leggerezza il suo stesso patrimonio.
«Ma questo, come capirete, comporta certe responsabilità», continuò; la voce prese note d’acciaio. «La prima è mettere ordine nella mia vita.»
Aprì la cartella.
«Per esempio, ho scoperto curiose anomalie nei nostri rendiconti. Pare che qualcuno abbia trasferito cinquecentomila euro su un conto non appartenente alla nostra famiglia.»
L’aria in sala diventò incandescente. Artiom provò ad afferrarle il braccio.
«Sofia, non è il luogo…»
«Oh, io credo sia il luogo perfetto», liberò il braccio; il sorriso scomparve, lasciando una maschera di ghiaccio. «Soprattutto visto che quei soldi sono finiti sul conto di Alisa Vorontsova che, a quanto pare, non è solo un’artista talentuosa, ma anche la tua… partner d’affari?»
Tutti gli sguardi si puntarono su Alisa, che pareva volersi aprire la terra sotto i piedi. I sussurri aumentarono; Sofia vedeva reputazioni crollare e legami d’affari spezzarsi.
«E, già che parliamo di partnership», estrasse una busta e la aprì, «ho pensato che ai nostri ospiti potesse interessare dare un’occhiata alle condizioni del nuovo contratto che mio marito ha stipulato con la signorina Vorontsova.»
Tirò fuori delle foto. Non solo scene tenere, ma anche le pagine dell’atto di acquisto dell’atelier a nome di Alisa, firmate di pugno da Artiom.
«Sofia, basta!» ruggì Artiom, il volto deformato dall’ira. «Ti stai umiliando e stai umiliando me!»
«Umiliarmi?» La sua risata fu secca, spietata. «No, caro. Tu hai umiliato il nostro matrimonio, la nostra fiducia, il rispetto di queste persone. Io metto solo i puntini sulle i. Mostro il vero prezzo dei tuoi “sentimenti”.»
Si rivolse agli ospiti, molti dei quali già distoglievano lo sguardo.
«Capisco che la situazione sia scomoda per tutti. Per questo ho provveduto: all’ingresso vi attendono dei limousine per accompagnarvi ovunque vogliate.»
Come per incanto, gli invitati iniziarono a congedarsi in fretta. Nessuno voleva restare ostaggio di quel crollo pubblico.
Alisa, fin lì muta, con il volto stravolto dalla rabbia, si scagliò contro Sofia.
«Non capisci niente! Tra noi c’è vero amore! Non quella miseria in cui avete vissuto!»
Sofia la guardò con infinita indulgenza, come una bimba capricciosa.
«Tesoro, credi davvero che lo interessasse la tua anima? O non ti ha turbato che il tuo amante fosse il marito di una donna influente, che all’improvviso è diventata ancora più influente?»
Alisa la fissò smarrita.
«Cosa… cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che ora io sono la proprietaria dei “Moretti”, e Artiom diventerà presto il mio ex marito con i conti sotto sequestro e la reputazione calpestata qui, su questo pavimento. Mi chiedo sinceramente quanto durerà la vostra storia elevata.»
Si voltò verso Artiom per l’ultimo colpo.
«A proposito, ecco i documenti per il divorzio. La mia avvocata, Elizaveta Petrovna, parlerà col tuo legale lunedì. Viste le prove della tua lealtà e onestà, ti sconsiglio di sperare in condizioni generose.»
Artiom prese i documenti con le mani tremanti. Nei suoi occhi c’era la disperazione di una bestia in trappola.
«Sofia, possiamo parlarne. Possiamo andare da uno psicologo…»
«Non abbiamo nulla da discutere», lo interruppe, con voce da sentenza. «Hai fatto la tua scelta. Ora vivici.»
Raccolse la cartella e si avviò all’uscita. Sulla soglia, si voltò a guardare per l’ultima volta la coppia rimasta al centro della sala ormai quasi vuota — patetica, distrutta.
«Ah, sì, Alisa», disse con un sorriso lieve, quasi amichevole. «Quando finiranno i soldi della vendita dell’atelier (e finiranno, credimi), e vorrai tornare nel mondo dell’arte… ricorda che ora ho gallerie in cinque Paesi. E ho un’ottima memoria.»
Uscì nella notte fresca; il vento le sfiorò il viso come a lavare gli ultimi segni del passato. In lontananza un’ambulanza ululava la sua canzone infinita, ma per Sofia era il suono della libertà.
Nel taschino dell’abito vibrò il telefono. Irina.
«Allora? Sei viva? Ero in ansia!»
Sofia sorrise, osservando i lampioni riflettersi sull’asfalto bagnato.
«È finita. Adesso comincia la mia vita. Quella vera.»
E mentre camminava, lasciandosi alle spalle i fantasmi del matrimonio infelice, sentiva accendersi nel cuore un fuoco nuovo — il fuoco di una donna che non ha solo ricevuto un patrimonio. Ha ritrovato se stessa. Ed era questa la sua eredità più preziosa.