Dopo una giornata massacrante in cantiere, Slavik stava finalmente rientrando. L’estate gravava addosso come una coperta bagnata: la maglietta gli si appiccicava alla pelle, il sudore gli colava lungo la schiena. Per accorciare la strada prese un vicolo dietro un vecchio supermarket. Fu lì che sentì un suono appena percettibile: un singhiozzo, rotto, stanco.
Un bambino che piangeva.
Si fermò e si guardò intorno. Il lamento arrivava da un’auto parcheggiata, una berlina lucida con i vetri oscurati. Avvicinandosi, riuscì a intravedere sul sedile posteriore un neonato. Non doveva avere neanche un anno: guance accese, labbra secche, gli occhi velati e semichiusi. Sembrava sul punto di cedere.
Slavik provò le maniglie: bloccate. Nell’abitacolo l’aria tremava come in un forno.
Il respiro gli si fece corto. Per un istante esitò — spaccare un finestrino significava mettersi nei guai — ma bastò rifissare il piccolo, sfatto dal caldo, per capire che non c’era tempo da perdere. Raccolse un sasso dal bordo del marciapiede e lo scagliò contro il vetro. Primo colpo: una crepa. Secondo: un’ammaccatura. Al terzo, il cristallo esplose in scintille opache.
Allungò il braccio, slacciò le cinghie del seggiolino e strinse il bambino al petto. Poi si mise a correre. Due isolati sotto il sole appiccicoso, i polmoni in fiamme, le gambe pesanti. Sfondò la porta della clinica più vicina urlando aiuto. Una dottoressa arrivò quasi subito: sguardo teso, movimenti rapidi. Controllò il piccolo in un lampo e lo portò dentro.
Quando tornò, si rivolse a Slavik con un cenno di gratitudine limpida.
«Sei arrivato in tempo. Cinque minuti in più e non l’avremmo salvato.»
Passò un quarto d’ora. Una giovane donna irruppe nella clinica, vestiti alla moda, occhiali da sole spinti tra i capelli, più furiosa che spaventata. Appena vide Slavik, lo additò.
«Tu! Hai rotto il vetro della mia macchina? Sei impazzito? Avevo lasciato il mio numero sotto il tergicristallo! Sono stata via un minuto!»
Slavik la fissò, incredulo. «Tuo figlio stava per morire,» disse piano.
«Non sono affari tuoi! Non avevi alcun diritto! Pagherai i danni — chiamo la polizia!»
Gli agenti arrivarono di lì a poco. «Ha distrutto il finestrino?» chiese uno con calma.
Prima che Slavik rispondesse, comparvero l’infermiera e la dottoressa. Si piazzarono davanti a lui.
«Quest’uomo gli ha salvato la vita,» dichiarò la dottoressa. «Il bimbo era in grave colpo di calore. Senza il suo intervento, non ce l’avrebbe fatta.»
Le verifiche chiarirono che la donna era rimasta nel negozio per diciannove minuti, non per uno. Quel giorno fuori c’erano 34 °C; nell’auto chiusa la temperatura aveva superato i 60 °C. Le autorità le comminarono una multa pesante, sospesero temporaneamente la patente e la denunciarono per messa in pericolo di minore.
Intanto la storia di Slavik finì sulle tv locali e sui social: tutti lo chiamavano “eroe”. Gli arrivarono messaggi di stima, offerte di pagare il vetro e perfino proposte di lavoro. Poi, come succede sempre, l’onda calò. Slavik tornò al suo ritmo: sveglie all’alba, giornate di fatica, sere silenziose.
Un pomeriggio qualunque, alla fermata dell’autobus, scorse un volto familiare: la stessa donna, stavolta con il bambino per mano. Esitò. Fu lei a parlare per prima, la voce più morbida.
«Slavik, vero? Volevo chiederti scusa. Quel giorno ho perso la testa. Non mi perdono. Mio figlio è qui grazie a te.»
Slavik guardò il piccolo — vispo, con un coniglietto di peluche. Accennò un sorriso.
«Abbine cura,» mormorò. «E non lasciarlo mai più da solo così.»
— Un anno dopo —
La vita scorreva uguale: lavoro, caldo, stanchezza, casa. L’episodio era sbiadito per tutti. Per tutti tranne che per lui, ogni tanto. Una mattina di primavera trovò nella posta una busta un po’ stropicciata, sul retro uno scarabocchio infantile.
Dentro, una lettera scritta con pastelli:
«Ciao Zio Slava!
Mi chiamo Artem e ho 2 anni e 3 mesi.
La mamma dice che mi hai salvato. Io non ricordo, ma lei dice che sei un eroe.
Mi piace la zuppa e disegnare le macchine.
Grazie!
Con affetto,
Artem e la mamma.»
C’era anche un disegno: un’automobile tutta storta e tenera, un omino con la testa grande, un sole giallo e, in alto, una parola un po’ tremolante: “SALVATORE”.
Slavik si sedette al tavolo, il foglio tra le dita. Un sorriso caldo, dimenticato da tempo, gli distese il viso. Attaccò la lettera al frigorifero, si preparò un tè e lasciò uscire un lungo respiro. Per la prima volta dopo chissà quanto, il cuore gli sembrò più leggero.