Ho lasciato mia moglie e le mie figlie perché non mi avevano dato un maschio — ma quando sono tornato, una sola frase di mia figlia mi ha distrutto.

Ero stanco di rientrare e trovare soltanto figlie. Per anni avevo desiderato un maschio con la stessa ostinazione con cui si desidera l’acqua nel deserto. Poi, quando finalmente nacque “lui”, qualcosa in me si spaccò: più lo fissavo, più mi sembrava estraneo. Un bambino con la pelle chiara, gli occhi sottili, la fronte pronunciata. Io, invece, ero scuro, segnato dal sole, con lineamenti duri. E quella differenza, invece di farmi domande con lucidità, mi avvelenò.

Nel mio paese la gente non sussurra: sentenzia. E il nostro cortile era diventato una piazza.

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— In quella casa non nasce un maschio… sarà una maledizione.
— Senza un figlio, il nome si spegne.

Mia moglie incassava ogni parola come un colpo. Sorrideva per proteggere le bambine, ma la notte la sentivo piangere piano, per non farsi scoprire. Quando rimase incinta per la quarta volta, i medici le parlarono di rischio, di cuore affaticato, di pressione che non perdonava. Lei strinse i denti e andò avanti lo stesso, come se la sua vita fosse una moneta da lanciare pur di comprare la mia approvazione.

Quando mi dissero che era un maschio, piansi. Piansi davvero. Mi sembrò una vittoria, una prova che il cielo mi stava finalmente dando ragione. Ma la felicità durò poco, perché la mia mente cominciò a cercare crepe ovunque.

Nei giorni in cui tornavo dal lavoro col sangue caldo e l’orgoglio più caldo ancora, la colpivo con frasi che non avevano bisogno di pugni per fare male.

«Sei sicura che sia mio?»

Lei impallidiva e si scioglieva in lacrime, senza riuscire nemmeno a difendersi. E la nostra primogenita—tredici anni, magra come un giunco—mi guardava in silenzio, con quegli occhi troppo grandi per la sua età, come se stesse imparando una lezione che nessuna figlia dovrebbe imparare: che l’amore di un padre può avere condizioni.

Poi arrivò lei. Una donna più giovane, una parrucchiera con mani profumate di shampoo e parole morbide come velluto. Mi ascoltava lamentarmi e mi restituiva quello che volevo sentire.

«Io te ne darò due, di maschi. Non come quell’altra.»

E io, stupido e gonfio, mi ci aggrappai come a una promessa sacra. Un giorno uscii di casa senza dire niente. Non fu una fuga romantica: fu una resa vigliacca. Mi sistemai con lei in una pensione fuori mano, una stanza piccola, un letto cigolante, eppure mi sembrava di respirare per la prima volta. In realtà stavo solo scappando dal peso delle mie scelte.

Per una settimana non chiamai. Una settimana intera. Come se il silenzio potesse cancellare mia moglie, le mie figlie, le loro domande, la loro paura.

Poi, un pomeriggio di pioggia, tornai. Avevo già deciso: divorzio. Fine. Nuova vita.

Aprii la porta e mi fermai.

Le bambine erano sedute in sala, immobili, come se anche l’aria avesse paura di muoversi. Avevano gli occhi gonfi, arrossati, vuoti. La maggiore si alzò lentamente. Non corse da me. Non mi urlò contro. Non pianse. E quella calma mi fece più paura di qualunque scena.

Indicò il corridoio e disse, con una voce che non dimenticherò mai:

— «Papà… vieni a vedere la mamma un’ultima volta.»

In quel momento capii che ogni mia fantasia—il maschio, l’erede, il nome, la “famiglia giusta”—era cenere.

Corsi in camera. Mia moglie era lì, distesa, pallida come un lenzuolo steso al vento. Accanto a lei, una lettera incompiuta e una scatola di pillole. Il bambino era dai vicini. Io chiamai aiuto, urlai il suo nome, la scossi come se la forza potesse riportare indietro il tempo. Ma il tempo non torna, mai. E io ero arrivato quando ormai non c’era più nulla da salvare.

Nella lettera c’erano poche righe, tremanti come un filo:

“Scusami. Ho tenuto duro perché speravo che, con un figlio maschio, mi avresti guardata di nuovo come una moglie. Ma quando te ne sei andato, ho capito che avevo già perso. Se esiste un’altra vita, voglio essere ancora la madre dei miei bambini… anche se non sarò più tua.”

Mi crollò il corpo addosso. Rimasi seduto per terra, la carta tra le dita, mentre il pianto delle mie figlie riempiva la casa come acqua che sale e non lascia scampo.

E la donna per cui avevo tradito tutto? Quando seppe, sparì. Tagliò i ponti, cambiò numero, si dissolse nella notte come fanno i vigliacchi quando il prezzo diventa reale.

Io, invece, rimasi.

Rimasi con il vuoto nel letto, con lo sguardo delle mie figlie che non era più lo stesso, con un figlio che avevo desiderato come un trofeo e che ora mi sembrava un promemoria crudele di quanto fossi stato cieco.

Perché la verità è questa: non avevo perso una moglie soltanto. Avevo distrutto una casa.

E quella frase—“un’ultima volta”—mi spezza ancora oggi, ogni volta che chiudo gli occhi.

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