«Quando rientrai a casa, la mia vicina mi piombò addosso: “Di giorno, da casa tua arriva un inferno di rumori!”»
«Non può essere,» risposi, spiazzato. «Non dovrebbe esserci nessuno.»
Lei non mollò. «Ho sentito un uomo urlare.»
Quella frase mi rimase addosso come un odore acre. La sera controllai ogni stanza, aprii armadi, guardai dietro le tende, feci scorrere le finestre: niente. Eppure l’aria… l’aria aveva qualcosa di stonato, come se la casa non fosse davvero vuota.
Quella notte dormii a singhiozzi, con l’orecchio teso a ogni scricchiolio.
La mattina seguente presi una decisione che mi sembrò ridicola e necessaria allo stesso tempo. Telefonai al lavoro, dissi che non stavo bene e misi in scena la mia uscita: garage aperto, auto fuori quanto bastava perché i vicini mi notassero, poi di nuovo dentro con il motore spento. Rientrai dalla porta laterale, a passi leggeri, e mi infilai in camera.
Mi sdraiai a terra e scivolai sotto il letto, trascinandomi come un ladro in casa mia. Tirai giù il copriletto quel tanto che bastava a coprire le gambe e rimasi lì, immobile, con il cuore che faceva più rumore di quanto avrei voluto ammettere.
I minuti si allungarono. Il silenzio diventò una coperta pesante, soffocante. Ogni tanto il frigorifero partiva e io sobbalzavo, come se qualcuno avesse tossito alle mie spalle.
Verso le undici e venti, proprio quando stavo per convincermi che mi ero fatto trascinare dalla paranoia di una vicina troppo impicciona, sentii un suono che non avevo immaginato: la serratura.
La porta d’ingresso si aprì piano. Non con l’impaccio di chi forza, ma con la confidenza di chi conosce il gesto.
Passi.
Calmi, regolari, quasi svogliati.
Attraversarono il corridoio e poi—senza esitazione—entrarono nella mia camera da letto.
Una voce maschile brontolò, bassa e irritata: «Sempre il solito casino, Marcus…»
Mi gelò il sangue.
Conosceva il mio nome.
E quella voce mi graffiò la memoria, come una canzone sentita da bambino e dimenticata per anni.
Rimasi sotto il letto trattenendo il respiro, con la polvere che mi pizzicava la gola. Lui si muoveva nella stanza con una naturalezza indecente: apriva cassetti, rimetteva a posto cose che non ricordavo nemmeno di aver spostato, come se avesse una mappa in testa.
Un cassetto sbatté. «Cambiare sempre posto alle cose…» bofonchiò. «Non impari mai.»
Mi si rizzarono i peli sulle braccia. Come fa a sapere queste cose?
Si avvicinò all’armadio. Le grucce tintinnarono. Dal mio punto di vista vedevo solo gli stivali: pelle marrone, consumata ma curata, non quelli di un ladro di passaggio. Nessuna fretta. Nessuna paura.
Stava… abitando la mia camera.
Mi spostai di qualche centimetro, lentamente, cercando uno spiraglio migliore. Lui allungò la mano verso lo scaffale più alto e tirò giù una scatola blu che io non avevo mai visto. La aprì con la delicatezza di chi custodisce qualcosa da tempo.
Poi, come se l’universo avesse deciso di ridere di me, il telefono nella mia tasca vibrò.
Un ronzio minuscolo. Ma in quel silenzio fu un colpo di pistola.
L’uomo si immobilizzò.
Io smisi di respirare.
Lo sentii abbassarsi. Gli stivali si girarono verso il letto. Una mano comparve sul bordo del copriletto e lo sollevò quel tanto che bastava a cercare sotto.
Io rotolai dall’altro lato e scattai fuori, alzandomi di colpo.
Lui si lanciò in avanti. Una lampada cadde, si frantumò con un suono secco. Io indietreggiai, istintivamente afferrai quello che mi capitò: la base della lampada rimasta intera, come se potesse salvarmi.
Quando lui si raddrizzò, lo vidi in faccia.
E per un istante mi mancò il fiato non per la paura, ma per lo shock.
Mi somigliava.
Non in modo perfetto—la mascella più piena, il naso appena deviato, i capelli più folti—ma abbastanza da farmi sentire la nausea salire, come se stessi guardando una versione diversa di me, riscritta con una calligrafia più dura.
Mi fissò senza correre. Senza panico. Con una calma quasi stanca.
«Non dovevi essere qui,» disse.
«Chi diavolo sei?» riuscii a sputare fuori, stringendo l’oggetto tra le mani.
Lui sollevò i palmi in segno di resa. «Mi chiamo Adrian.»
«E che ci fai a casa mia?»
Abbassò lo sguardo un secondo, poi lo rialzò. «Ci sto… vivendo. Solo di giorno. Quando tu sei via.»
La parola vivendo mi attraversò come una lama.
«Da quanto?»
Adrian esitò appena. «Da mesi.»
Sentii la rabbia esplodere, calda, assurda, tremante. «Hai violato casa mia!»
«Non ho forzato nulla,» disse, e quella risposta, invece di calmarmi, mi fece ancora più paura.
«Che significa?»
I suoi occhi scivolarono verso il corridoio come se, anche in quel momento, avesse l’istinto di controllare la strada. «Ho una chiave.»
Mi si strinse lo stomaco. «Da dove l’hai presa?»
Lui inghiottì, come se dovesse scegliere tra dire la verità e perdere ciò che gli restava. Poi lo disse, piano, senza teatralità.
«Da tuo padre.»
La frase mi colpì in pieno petto.
«Mio padre è morto quando avevo diciannove anni,» dissi. E mi accorsi di quanto la mia voce tremasse.
Adrian annuì. «Lo so.»
«Allora come…»
Si sedette sul bordo del letto con un gesto naturale, come se la stanza gli appartenesse davvero. «Perché era anche mio padre.»
Rimasi immobile, incapace di capire se stessi ascoltando un delirio o qualcosa di più terribile: la realtà.
«Stai mentendo.»
«No.» Adrian prese la scatola blu e la aprì davanti a me. «Ha lasciato queste. Pensava… pensava che un giorno le avresti trovate.»
Dentro c’erano lettere. Vecchie, ingiallite, piegate e ripiegate, tutte con la grafia che conoscevo fin troppo bene: quella che avevo visto su cartoline di compleanno, su biglietti frettolosi, su un paio di fogli conservati da mia madre come reliquie.
La prima non era indirizzata a noi.
C’era un nome che non avevo mai sentito: Elena.
Lessi una riga. Poi un’altra. E sentii la realtà sbriciolarsi in silenzio, come un muro che si credeva portante e invece era solo cartongesso.
Una relazione nascosta.
Un’altra vita.
Un figlio.
Adrian Keller.
«Perché non me l’ha mai detto?» sussurrai, e mi odiai per quanto quella domanda suonasse infantile.
Adrian si strinse nelle spalle, ma nei suoi occhi passò qualcosa che somigliava a una tristezza antica. «Forse non ha avuto il coraggio. Forse voleva proteggere qualcuno. O proteggere se stesso.»
«E tu?» dissi, alzando lo sguardo. «Perché venire qui? Perché… infilarti nella mia vita come un fantasma?»
Lui si passò una mano sulla fronte. «Ho perso il lavoro. Ho perso casa. E nessuno mi ha creduto. Questa…» guardò la camera, la mia camera, come se fosse una fotografia ingrandita di un passato che non gli apparteneva davvero, «…era l’unico posto che mi restava vicino a lui. Alla sua traccia.»
Ci fu un silenzio pieno di cose non dette: la mia violazione, la sua disperazione, il fatto che eravamo due sconosciuti legati da un uomo che, anche da morto, riusciva a creare segreti.
«Avresti potuto bussare,» dissi con voce roca.
Adrian fece un mezzo sorriso, vuoto. «E presentarmi così? “Ciao, sono tuo fratello segreto”? Non mi avresti creduto. E forse avresti chiamato la polizia.»
Non aveva torto. E quel pensiero mi fece male, perché mi riconobbi in lui più di quanto volessi.
Guardai le lettere nella mia mano. Guardai lui. Guardai il letto sotto cui avevo passato ore a tremare.
«Non puoi restare qui,» dissi alla fine, cercando di rimettere ordine almeno in una frase.
«Lo so,» rispose subito. Come se l’avesse saputo da sempre.
Esitai. Sentii la rabbia ancora viva, ma sotto—sotto c’era qualcosa di più pesante: una specie di lutto nuovo, per la versione di mio padre che avevo creduto vera.
«Però…» deglutii. «Se quello che hai detto è vero, io voglio sapere. Voglio sapere tutto. Di lui. Di te. Di… noi, immagino.»
Gli occhi di Adrian si addolcirono, e per la prima volta quell’aria dura che aveva addosso si incrinò appena.
«Mi piacerebbe,» disse piano.
E così, seduti ai bordi opposti di una verità scomoda, cominciammo a parlare: di un padre diviso in due, di due infanzie parallele, di assenze che avevano fatto la stessa ferita in corpi diversi.
Non cancellò la paura.
Non cancellò la sensazione di casa violata.
Ma, in mezzo a quel caos, mise un nome a ciò che avevo trovato.
Non solo un intruso.
Un fratello.
E forse—per quanto assurdo—qualcuno che era rimasto solo troppo a lungo. Proprio come me.
Fine.