Tutto è cominciato quando ho visto un ragazzino rubare del cibo — e si è concluso in un modo che non dimenticherò mai.
Era un pomeriggio qualunque, mi trovavo in fila alla cassa di un supermercato quando, con la coda dell’occhio, ho notato un bambino — avrà avuto otto, forse nove anni — infilare furtivamente delle barrette di cereali nella tasca della felpa. I suoi gesti erano rapidi, nervosi; si guardava attorno come un animale in trappola, pronto a scappare.
Il cassiere non se ne era accorto. Nessuno sembrava prestargli attenzione. Avrebbe potuto andarsene senza problemi, e invece si è fermato un attimo, ha afferrato anche una piccola confezione di latte e l’ha nascosta. È stato in quell’istante che ho capito: non era una bravata. Quel bambino aveva fame.
Potevo girarmi dall’altra parte. Lasciare che le telecamere e la sicurezza facessero il loro lavoro. Ma qualcosa dentro di me me lo ha impedito.
L’ho seguito.
Quando si è accorto di me, si è irrigidito. Nei suoi occhi c’era panico. Credevo sarebbe fuggito, invece è rimasto immobile, stringendo la felpa come a proteggere il bottino.
— Ciao, — ho detto sottovoce. — Va tutto bene?
Non ha parlato, ha solo annuito.
— È per te? — ho chiesto, indicando la tasca. Un altro cenno.
Guardai attorno: nessuno stava osservando. Avrei potuto rimproverarlo, o peggio, denunciarlo. Invece ho messo mano al portafoglio e gli ho teso qualche banconota.
— Torniamo dentro. Questa volta scegliamo insieme qualcosa da mangiare, d’accordo?
Il suo mento tremò. Voleva dire di no, ma la fame vinse.
— E la tua famiglia? — domandai.
Si bloccò, poi sussurrò:
— Mamma è a casa… è malata.
Un nodo mi salì alla gola.
— E tuo padre?
Abbassò lo sguardo.
— Non c’è più.
Gli sorrisi con dolcezza.
— Allora prendiamo anche qualcosa per lei.
Sasha — così si chiamava — scelse pane, burro di arachidi e qualche scatoletta di tonno. Io aggiunsi frutta e acqua. Alla cassa, lo rassicurai:
— Stiamo solo comprando del cibo. Nessuno ti farà niente.
Dopo aver pagato, gli chiesi dove abitasse.
— A due isolati da qui.
— Ti accompagno. Voglio vedere come sta tua mamma.
Durante il tragitto mi raccontò la sua vita: una madre malata, nessun reddito, giorni interi senza mangiare. Saltava i pasti per lasciarli a lei.
Arrivati, salimmo le scale di un vecchio palazzo. L’appartamento era buio, la porta socchiusa. Sasha la spinse e chiamò:
— Mamma, sono io!
Una voce flebile rispose:
— Sasha?
Sul divano, sotto una coperta sottile, una donna magrissima ci guardò con occhi stanchi ma pieni d’amore per quel figlio.
— Chi è questa?
— Un’amica, — dissi. — Ho incontrato Sasha e volevo dare una mano.
Le lacrime le rigarono il viso.
Rimasi un po’ con loro, sistemai la spesa, lasciai il mio numero a Sasha:
— Se hai bisogno, chiamami.
Da quel giorno andai spesso a trovarli: portavo cibo, aiutavo a pagare le bollette, portavo Sasha al parco.
Un pomeriggio, però, arrivò la telefonata che temevo:
— Mamma sta male… — la voce di Sasha tremava.
Corsi da loro. La donna respirava a fatica. La portammo in ospedale: infezione grave, ricovero urgente.
Sasha mi prese la mano:
— E io?
— Non sei solo, — gli promisi.
I servizi sociali rintracciarono una zia in un’altra regione, disposta a occuparsi di lui. Il giorno della partenza mi abbracciò forte:
— Grazie di tutto.
— Abbi cura di te, Sasha.
Passarono mesi. Poi arrivò una lettera: raccontava della nuova scuola, degli amici, del calcio, e che sua madre stava meglio. Concludeva con una frase che mi commosse fino alle lacrime:
“Grazie per essere stata il mio angelo quando ne avevo più bisogno.”
Tempo dopo, la rividi: la madre di Sasha, in salute, al supermercato. Mi ringraziò con un braccialetto fatto a mano.
— È da parte di Sasha. Vuole che lo tenga lei.
Uscendo dal negozio, lo stringevo al polso. Pensai che tutto era iniziato con un furto di cibo… ed era finito con una lezione indelebile sulla gentilezza e sul potere dei legami umani.
A volte basta un gesto semplice per cambiare un destino.