La sposa è crollata durante le nozze — bastate poche parole di una sconosciuta.

— «Svetka, sei uno splendore con quel vestito!» esclamò l’amica, fissandola estasiata. «Appena sistemiamo i capelli, sarai una principessa vera.»

Svetlana, pensierosa davanti allo specchio, si passò le dita tra le ciocche.
— «E se li facessi più scuri? Che dici?»

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— «Neanche per sogno!» ribatté Olga. «Il castano cupo ti toglierebbe dieci anni… ma al contrario: sembreresti la zia del terzo piano. Così come sei sei luminosa e giovane.»

— «Ol’, ho ventinove anni,» rispose Svetlana, seria.

— «Sul serio? Te ne darei diciannove. Basta che dopo le nozze tuo marito non te ne aggiunga altri dieci!» rise Olga.

Risero entrambe, con quel mezzo sorriso che lascia intravedere una verità.

Il conto alla rovescia era iniziato: mancavano gli ultimi ritocchi e il sogno di Svetlana stava per materializzarsi. Aveva immaginato quel matrimonio mille volte: una villa di campagna, il giardino illuminato, musica dal vivo, un viavai di amici e volti nuovi, porte aperte a chiunque desiderasse festeggiare. Il budget non era un problema: lei se la cavava da sola e il futuro sposo, Andrei, figlio di una famiglia influente e avvocato affermato, non era da meno.

Erano una coppia da copertina: alti, slanciati, biondi, occhi chiarissimi — quasi due gocce d’acqua.

Gli invitati erano tanti. Molti li conoscevano appena, ma più gente c’era, più la festa sembrava viva.

All’ingresso del cortile avevano montato un piccolo palco con impianto audio. Chi voleva poteva prendere il microfono, dedicare un brindisi, cantare una canzone. Accanto, il DJ, con basi pronte per ogni richiesta.

La musica, per Svetlana, era casa. Scriveva e cantava. Gli amici iniziarono a incitarla:
— «Dai, Svetka, regalaci qualcosa!»
— «Non solo canta, scrive anche i pezzi!» aggiunse una signora gioviale.

Rifiutare sarebbe stato scortese. Prese il microfono. La sua voce, calda e piena, riempì l’aria: chi non l’aveva mai sentita rimase senza parole. Chiesero il bis, poi un altro ancora. Tutti brani suoi, testo e musica. Qualcuno si commosse; un paio di signore si lucidaron gli occhi.

— «È una stella,» mormoravano. «Che talento!»

Svetlana arrossì, sorrise, ringraziò e fece per scendere.

Fu allora che la vide: una bimba di sei anni, vestita alla meglio, fuori posto in mezzo a tanto luccichio. «Avrà chiesto qualche moneta,» pensò.

Scesa dal palco, riempì un sacchetto di dolci e la chiamò.
— «Vieni, tesoro. Guarda che bontà! Sei bellissima, sembri una bambolina. Facciamo una foto?»

La piccola salì accanto a lei. Sorrisero all’obiettivo. Poi, come fosse la cosa più naturale, la bambina disse:
— «Mamma… perché oggi sei così bella?»

Svetlana rimase spiazzata.
— «Amore, non sono la tua mamma. Ci vediamo per la prima volta, giusto?»

— «Allora adesso avremo anche un papà?» insisté la bimba. «E tu come stai? Stai meglio?»

Un brivido le corse lungo la schiena.
— «Piccola, ti stai confondendo,» rispose con dolcezza. «Ti sei persa?»

La bambina scosse la testa. La guardò con una sicurezza inspiegabile e pronunciò un nome. Quel nome. Quello di sua sorella. Svetlana impallidì e si aggrappò al microfono come a un corrimano invisibile.

— «Che cosa hai detto?» sussurrò, la voce sottile. «Ripeti…»

Le ginocchia si piegarono, la testa si fece leggera; sotto gli occhi increduli degli invitati, Svetlana crollò sul palco.

Nel nero che la avvolse si aprì un album di ricordi: lei bambina, sette anni appena. La vicina Masha che entra trafelata, la notizia dell’incidente. I genitori non torneranno. Il cervello di un bambino non tiene tutto quel dolore: per un po’ sopravvive per inerzia.

Poi gli anni si fanno più definiti e la ferita più nitida. Masha le prende in casa come fossero figlie sue. Tre anni insieme, finché Masha muore d’improvviso. L’orfanotrofio.

Non fu un inferno, come temevano. Le educatrici conoscevano la loro storia e talvolta chiudevano un occhio, riempivano i piatti un po’ di più. Svetlana vegliava su Lena, soprattutto di notte, quando le lacrime della piccola bagnavano il cuscino. Le cantava le ninnananne della mamma: per Lena erano una porta socchiusa su un tempo caldo e pieno.

Un giorno il direttore comparve con una cartellina nera: significava che qualcosa stava per cambiare. Una coppia benestante cercava una bambina di dieci-undici anni, bionda, somigliante alla figlia. La scelta cadde su Svetlana. Lena non rientrava nei loro piani. Il direttore provò a farli desistere, a convincerli a prenderle insieme. Niente da fare.

Allora mentì: spiegò a Svetlana che avrebbero portato Lena la settimana successiva.

Svetlana accettò per non traumatizzare la sorella. La abbracciò e promise:
— «Appena compio diciotto anni, vengo a prenderti. Giuro.»

Fu uno strappo. Lena non arrivò la settimana dopo. Né il mese dopo. Il direttore, divorato dai rimorsi, non poté più rimediare.

Gli anni scorsero. Gli adottivi le diedero casa, affetto, possibilità. Svetlana studiò, lavorò, si innamorò. Ma un vuoto non si colmava: dov’era Lena? Ingaggiò investigatori, consultò archivi, fece telefonate. Niente. Documenti persi, personale cambiato, tracce fredde.

E adesso, nel giorno delle sue nozze, una bimba l’aveva chiamata con il nome della sorella. «Mamma Lena.» Il mondo era andato in tilt.

Quando riaprì gli occhi, Andrei era chino su di lei.
— «Dove… dov’è?» mormorò.

— «Chi?» fece lui, ancora scosso. «La bambina? Sei caduta… ti fa male qualcosa?»

— «Sto bene, Andriuša,» lo rassicurò. «Solo un capogiro.»

Si rimise in piedi, ringraziò gli ospiti e, prendendo la piccola per mano, si appartò.
— «Amore, dimmi: come si chiama la tua mamma?»

— «Ti ho scambiata per lei… siete così uguali…» balbettò la bimba.

— «E dov’è adesso?» chiese Svetlana, il cuore in gola.

— «In ospedale,» sussurrò. «Ha una cosa brutta dentro. Devono operarla.»

Svetlana sentì il pavimento mancare.
— «E tu, perché sei qui da sola?»

— «Il papà se n’è andato da tanto. A casa non c’era più nulla. Sono uscita a cercare aiuto…» trattenne il pianto.

Svetlana l’abbracciò.
— «Non sei più sola, mi senti? Come ti chiami?»

— «Svetka.»

Quel nome la trafisse. Un cerchio che si chiudeva.

Agì senza esitare. Chiamò cliniche, reparti, chirurghi. Trovò una donna ricoverata, con una storia compatibile. Il cognome non coincideva — forse sposato. Era l’unica pista.

Si cambiò in fretta, chiamò un taxi e, lasciando gli invitati e un Andrei frastornato, corse in ospedale. In corsia la riconobbe subito: quel viso, anche segnato, era il suo specchio.
— «Lenochka… ti ho cercata ovunque,» disse tra le lacrime.

Lena, stanca, sorrise appena.
— «Chemioterapia. Dicono serva un intervento…»

— «Pensa a guarire,» rispose Svetlana, già determinata. «Al resto penso io.»

Entrò nello studio del primario: chiese una stanza singola, firmò garanzie, anticipi, qualunque cifra.
— «Fate il possibile e l’impossibile. Vi prego.»

I medici non promettevano nulla. Lei non mollò. Ogni giorno al capezzale, a stringerle la mano, a cantarle piano le stesse melodie dell’infanzia. Un mattino, con un filo di voce, Lena disse:
— «Ho sentito un angelo cantare… e l’ho seguito.»

Passarono i mesi. Gli esami migliorarono. Alla dimissione, Lena e la piccola Svetka si trasferirono da Svetlana. Andrei aprì le braccia: casa e cuore bastavano per tutte.

Il tempo fece il resto. Lena conobbe un uomo buono. Svetlana, quando ormai si sentiva al completo, scoprì di aspettare un bambino.

Se quella bambina non avesse confuso un volto in mezzo alla folla, forse le due sorelle non si sarebbero ritrovate. Ma il destino, a volte, parla con la voce di una bimba che chiede: «Mamma, perché oggi sei così bella?»

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