«Tesoro, mamma ci ha comprato un appartamento e l’ha messo a mio nome. Il mutuo, però, lo pagherai tu», mi annunciò il mio fidanzato.

Ero seduta rigida, il mento incollato alla spalla, mentre da entrambe le parti mi arrivavano ondate di accuse. Valentina Aleksandrovna, la madre del mio futuro marito, non risparmiava colpi: mi attribuiva ogni peccato possibile. Quello che bruciava di più, però, era Slava. Il mio Slava. Rimaneva lì, muto, annuendo come un burattino, senza il minimo tentativo di spegnerle il fuoco.

Dall’anno d’ingresso all’università tutti ci chiamavano “gli sposi”. In realtà ci conoscevamo da prima: dalle medie, quando i miei si erano trasferiti nel quartiere. All’epoca, con i miei occhiali enormi ero diventata subito il bersaglio preferito; poi Slava, il più forte della classe, dichiarò: «Chi tocca la nuova se la vede con me». Da allora mi accompagnò a casa, e quell’amicizia si trasformò, pian piano, in amore. Lui mi proteggeva; io lo aiutavo a studiare. I miei lo adoravano: sportivo, bello, gentile con gli animali. L’unico tallone d’Achille erano i voti, ma Slava aveva sempre gare o allenamenti — sci soprattutto. Difendeva il nome della scuola sui campi di gara, io il nostro nelle Olimpiadi scolastiche di russo, fisica e storia. Rideva: «Siamo due olimpionici: io nello sport, tu cervello e — sì — bellezza». Peccato che “bellezza e cervello” non bastassero a sua madre.

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Ricordo benissimo la prima volta a casa loro. Non avevo ancora posato la borsa che la sentii commentare a mezza voce: «Slava, davvero ti piace questa secchiona?». Slava rispose forte perché sentissi: «Mamma, Zhenya è straordinaria. E gli occhiali… le donano». «È la tua vita», replicò lei. «Ma io non mi affretterei. Di belle in giro ce ne sono, e tu ti fissi su questa pedante…». In quel momento entrò Nikolaj Ivanovič con una torta sbagliata, e Valentina lo riprese come un capufficio. Capì allora che, in confronto, la mia famiglia era un porto sereno. Da quel giorno, con Valentina mantenni le distanze. Slava cercava di giustificarla: «Lavora come cameriera in un sanatorio ma si sente vicecapo dei servizi. È ambiziosa, però in fondo è buona». Non ne dubitavo, ma non per questo le lasciavo campo.

A scuola Slava arrivò al diploma anche grazie a me. All’università non discutemmo nemmeno: Economia per entrambi. Io entrai con i miei meriti; lui, con qualche spintarella organizzata da Valentina. Continuai a tirarlo su agli esami; lui continuò a vincere per l’ateneo. A metà del quarto anno la parola “matrimonio” smise di essere un’ipotesi. Le nostre famiglie si vedevano, concordi: eravamo fatti l’uno per l’altra. Il mio libretto era frutto del mio lavoro, a lui fioccavano riconoscimenti sportivi. Poi Valentina si attivò: a Slava trovò un posto da marketer in una grande azienda, a me toccò un ruolo da economista in un’impresa edile.

In quello stesso periodo morì la nonna, la mia cara Polina Žacharovna. Mi lasciò un bilocale in periferia. Non sapevo ancora cosa farne — una casa non pesa mai — e i miei pensarono che potessimo andarci dopo le nozze.

Appena laureati, Slava mi portò in un sanatorio sul Lago Cristallo. Lì mi fece una proposta da cinema. Una sera tiepida, sulla terrazza di un caffè, mi chiese: «Zhenya, da quanti anni ci conosciamo?». Stavo contando quando partirono i violini, poi un violoncello, poi un sax: sullo sfondo del lago, la musica era incanto puro. «Hai ingaggiato dei musicisti?» «Il minimo per te», sorrise. Poi tirò fuori un astuccio: su velluto blu brillava un anello stupendo. «È di famiglia. Passa di sposo in sposa», spiegò, un po’ imbarazzato. «Zhenya, vuoi diventare mia moglie?». Si inginocchiò. Io dissi sì, e il caffè esplose in applausi.

Tornati in città, cominciammo i preparativi. I miei, che hanno un’attività e tanti contatti, suggerirono ottimi ristoranti. Mancava solo il via libera dei genitori di Slava, che però avevano tutt’altra idea. Un pomeriggio mi chiamò: «Ti ricordi il caffè “Stella”? Domani alle sette i miei vogliono incontrarti lì. È importante, riguarda il matrimonio». «Perché senza i miei?» chiesi. Lui svicolò, e accettai.

Arrivai puntuale e li trovai già tutti seduti, compunti come a una firma dal notaio. Valentina sorrise troppo. Slava mi abbracciò: «Abbiamo preso insalata e arrosto, va bene?». «Va bene. E quindi?». Si scambiarono occhiate elettriche. «Zhenya, è una cosa da un milione di dollari!» disse Slava. «Basta enigmi», lo gelai. Fu allora che sganciò: «Amore, mamma ci ha comprato un appartamento e l’ha intestato a me. Il mutuo, però, lo paghi tu».

Mi si aprì il pavimento sotto i piedi. «Bel modo di inaugurare la vita insieme», riuscii a dire. «E perché mai dovrei infilarmi in un mutuo di cui non sono proprietaria? Ho scritto “ingenuità” in fronte?». Slava abbassò gli occhi. Valentina, invece, partì in quarta: «Cosa credevi? Che mio figlio frugasse nei cassonetti per sposare te? È già un regalo che ti abbia scelta. Sei intelligente, d’accordo, ma sei una tra milioni. Ringrazia». Ringraziai — dentro — per l’eleganza. «E perché non una quota anche a me?» ribattei. «Se pago, possiedo. Vi pare strano?». Lei, imperturbabile, suggerì di vendere il mio appartamento ereditato per estinguere in fretta il mutuo. Di darmi diritti, però, non se ne parlava. Era chiaro: per loro ero un portafoglio con le gambe. Nikolaj fuggì in bagno, probabilmente imbarazzato tanto quanto me.

Mi alzai. Prima di uscire, sfilai l’anello e lo posai davanti a Slava: «Questo, credo, sia tuo, Vjačeslav». Lo chiamai per nome e me ne andai a piedi, senza sentire più le gambe. Mi sentivo spremuta e presa in giro. Se questo è l’amore, che posto c’è per questi conti? Valentina mi aveva etichettata come avida, e io ancora cercavo di capire dove fosse la mia avidità.

A casa raccontai tutto ai miei. Rimasero di pietra. Alle dieci mi arrivò un messaggio di Slava: «Ti sei comportata in modo indegno. Io e mamma pensiamo al nostro futuro e tu ci sputi sopra. È così che si comporta chi ama?». «È così che si ama, mandando l’altro in rovina?» risposi. «Io l’amore lo immaginavo diversamente». Poco dopo il telefono squillò, ma non risposi. Avevo in bocca un amaro difficile da spiegare, come se l’anima fosse stata strappata e pestata e poi rimessa insieme alla meglio.

Quella sera capii che non avrei sposato un uomo senza spina dorsale, che obbedisce alla madre in tutto. Meglio sola che con chiunque.

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