«Di nuovo quella maglietta sfilacciata?» Mikhail sollevò gli occhi dal portatile e la trafisse con uno sguardo di disprezzo. «Possibile che almeno in casa tu non riesca a vestirti in modo decente?»
«Ho appena finito di pulire la cucina…» fece Natasha, tirandosi la stoffa addosso d’istinto. «Stavo per cambiarmi prima di—»
«Prima di cosa?» la troncò lui, con quel sorriso obliquo che da un anno era diventato la sua maschera preferita. «Prima di metterti a guardare quelle serie sulle mogli ricche che, a differenza tua, sanno come ci si presenta?»
Natasha tacque. Negli ultimi tempi aveva imparato a mordere la lingua. All’inizio lo faceva per non scatenare tempeste davanti ad Alisa. Poi il silenzio era diventato abitudine, come evitare gli specchi a figura intera.
Cinque anni prima, stretta nel tailleur del giorno della laurea in Filologia, le era parso che la vita scorresse su binari puliti e dritti: un buon posto in casa editrice, un marito scrittore, una famiglia numerosa all’orizzonte. Aveva perfino lavorato un anno e mezzo come editor, finché due linee rosse su un test non avevano riscritto l’agenda. «Eri così promettente!» adorava ricordarle Mikhail, parlando di lei al passato. «I colleghi ti stimavano, e ora non riesci a finire un libro. Tra pannolini e pappe ti sei persa.»
Il quaderno che spaccò la diga
Natasha non ribatté. Alisa le prosciugava davvero ogni ora. Poi c’era stata la malattia della madre, la casa da mandare avanti a colpi di energie che non bastavano mai. Le rare uscite “in società” si erano ridotte a tre ore d’aria per ricordarsi come si respirava.
«Prévert aveva ragione» disse una sera Mikhail a cena, rivolgendosi a sua madre. «“Le donne che leggono troppo e quelle che non leggono affatto sono pericolose allo stesso modo.” Immagina: mia moglie fa entrambe le cose.»
Elena Borisovna scosse la lingua, finta compassione sugli zigomi tirati. «Ai miei tempi, cara, i figli si crescevano, si lavorava otto ore e si seguivano pure i corsi serali. Nessuno si lamentava.»
A Natasha bruciarono le guance. Elena aveva cresciuto un figlio solo con due tate e una domestica. La sua fatica era sempre stata quella del controllo.
«Non mi lamento» rispose piano. «È solo un periodo complicato.»
«Un periodo?» Mikhail le si rovesciò addosso con quella cadenza di monologo che usava per ridurla in polvere. «Chiamalo congedo di maternità. Tre anni che te lo “godi”, mentre io scrivo un romanzo che, credimi, farà epoca. E la cosa più triste? Non ti interessa nemmeno.»
Non era vero. Natasha chiedeva, ascoltava, proponeva. Ma Mikhail non cercava un dialogo: voleva un coro di applausi personali. E quale entusiasmo può simulare una donna che non dorme da tre notti per i dentini della figlia?
«Hai smesso di curarti» continuò, roteando la forchetta. «Sei diventata grigia. Ricordo quando ci siamo conosciuti: eri luce. Ora? Codino, magliette slabbrate, niente trucco…»
«Misha, io…» provò lei.
«Fammi finire!» ruggì. «Magari è il mio modo di aiutarti. Fra poco parlerai solo di saldi come le scrofe al mercato.»
Natasha abbassò lo sguardo. Una parte di lei riconosceva la perdita di smalto. Ma era tutta colpa sua?
Quella sera la chiamò Lena, ex compagna di corso diventata psicologa. «Stai piangendo?»
«È solo stanchezza.»
«Non è “solo”. Fai così: prendi un quaderno e scrivi tutto ciò che non puoi dire. Ogni volta che la rabbia sale, spostala sulla carta. Funziona.»
Scettica, Natasha comprò un quaderno a quadretti. Per scrupolo. Quella notte, dopo l’ennesimo sermone sulla sua “decadenza intellettuale”, aprì la prima pagina.
«Oggi mio marito mi ha spiegato che sono inutile. Mi ha paragonata a una minestra del giorno prima. Ma quella minestra la cucino io, perché lui possa inseguire il suo “capolavoro”. Sua madre chiama la maternità passatempo. Io la chiamo maratona.»
Chiuse la penna e sentì un alleggerimento netto, come sgonfiare un pallone.
Cominciò così. Ogni sera, dopo un colpo basso, andava al quaderno. Il primo durò un mese. Il secondo, più spesso, per altri due. Poi un terzo, un quarto. Una diga che teneva a bada la piena.
Una ribellione che prende forma
A un anno dal primo appunto, Natasha si accorse che le sue pagine avevano cambiato pelle: non più note, ma scene; non più sfoghi, ma racconti. Dialoghi, immagini, riflessioni cucite con un filo che non sapeva di avere.
«Cosa scrivi di notte?» chiese Mikhail un giorno, intravedendola china sul tavolo. «La lista della spesa?»
«Sono cose mie» rispose, per la prima volta con una calma che non tremava.
«Cose tue?» rise. «Oltre a quella tazza coi gattini?»
Natasha fece scivolare il quaderno in una scatola di vestiti invernali. Un luogo in cui Mikhail non avrebbe messo il naso.
Rileggendo, un’idea folle: quelle pagine erano già un romanzo. Non il solito, ma una confessione dall’interno di un matrimonio che si era fatto gabbia.
«E se…?» Il pensiero le balenò e fuggì. «A chi interesserebbero le mie lamentele?»
Lena lesse alcune pagine e glielo disse senza giri: «È potente. Da psicologa ti dico che qui c’è più verità che in molti saggi sulle relazioni.»
Poi accadde l’imprevisto: Mikhail chiese il divorzio. «Ho bisogno di una musa, non di una colf. Qualcuna che mi ispiri, non che mi ricordi le stoviglie.»
«E dove pensi di trovarla?» chiese Natasha, stupita della propria voce ferma.
«Il mese prossimo presento il mio romanzo» disse, ignorando la domanda. «La casa editrice ha capito il mio talento. Voglio ricominciare. Senza zavorre.»
Zavorra. Ecco cosa era diventata.
«Mia madre aveva ragione su di te» aggiunse mentre buttava due maglie in una valigia. «Mi hai sposato per il mio potenziale e ti sei ritrovata una casalinga.»
Elena Borisovna, com’era prevedibile, si schierò con il figlio. Davanti a Natasha condoglianze viscide, dietro la porta giudizi affilati: «Te l’avevo detto, Misha. È semplice, senza ambizioni. Queste donne appassiscono.»
Natasha, nel corridoio con Alisa addormentata sulla spalla, pensò: come ho potuto non vedere che i due erano fatti della stessa pasta?
Si separarono. Mikhail affittò un monolocale; Natasha tornò dai genitori. La madre, in ripresa, teneva Alisa mentre lei riprendeva a cercare lavoro. La vecchia casa editrice la richiamò: prima correzioni, poi editing. Le giornate ripresero un ritmo a misura d’umano. Le notti, però, avevano ancora la sagoma del diario.
Un invito arrivò per la presentazione del romanzo di Mikhail. «Vieni a sostenere il giovane autore promettente.» Natasha sorrise amaro e mise da parte. La sera dopo fu Mikhail a chiamare: «Sono già in cima alle classifiche! I critici mi definiscono il ritratto dell’animo maschile. Peccato tu non sappia riconoscere la grandezza.»
Chiusa la telefonata, Natasha tirò fuori gli otto quaderni. «Come ho potuto sopportare tutto questo?» Si rispose con un gesto. Scansionò le pagine e le inviò all’editor: «Leggile. Se sono sciocchezze, butta tutto.»
Due giorni dopo, l’editor la guardò oltre una pila di fogli sottolineati. «Hai un libro. L’ho letto senza respirare. Fa male, ma è vero. E oggi la verità è merce rara.»
«Sono appunti scomposti» balbettò lei. «Non c’è trama, non c’è struttura.»
«È la sua forza» ribatté la donna. «Una confessione senza imbellettature. Cambiamo solo i nomi. E basta.»
Diario
Un anno dopo il manoscritto uscì, con un titolo che Natasha difese fino all’ultima bozza: Diario. La casa editrice avrebbe voluto scintille, lei scelse l’essenziale. Non limò lo stile, non riscrisse gli eventi. Pubblicò la ferita.
«Sei sicura?» le chiese Lena, sfogliando le bozze. «È molto intimo. Mikhail potrebbe minacciare querele.»
«È la mia vita» rispose Natasha. «Non ho inventato nulla.»
All’inizio non si aspettava rumore. Una donna stanca delle mancanze di rispetto del marito: quante storie così? E invece i social si riempirono di evidenziature e post: «Ho letto e ho pianto. È la mia storia.» «Finalmente qualcuno ha trovato le parole.» «L’ho finito e ho chiesto il divorzio. Grazie.»
In due settimane esaurirono la prima tiratura. Poi la seconda. I giornalisti chiamavano, i programmi tv volevano il suo volto. «Il fenomeno della sincerità» scrissero i critici. «Un libro che dice ciò che si tace.»
Natasha non era preparata a quell’onda. Dopo otto anni in una stanza, il mondo la guardava. «Mi invitano in tv» disse a Lena, stringendo un cartoncino lucido. «E se non sapessi cosa dire?»
«La stessa cosa che hai scritto» rispose l’amica. «La tua verità.»
Quando l’eco cominciò a smorzarsi, la casa editrice le girò una richiesta insolita: una lettrice malata desiderava una copia autografata con consegna a domicilio. Il nome sulla busta era inevitabile: Elena Borisovna Koreneva.
Natasha ci pensò giorni. Poi suonò a quella porta che conosceva fin troppo bene. L’appartamento era identico, ma il ritratto di Mikhail era sparito: al suo posto, un Monet stampato.
«L’ho letto due volte» disse Elena. La voce non aveva più smalto, le mani, un tempo curate, mostravano vene gonfie.
«Che cosa ne pensa?» chiese Natasha.
«Che ho cresciuto un uomo crudele» rispose Elena, semplice come un bicchiere d’acqua. «E che ti ho dato una mano a spezzarti. Se puoi, perdonami.»
Natasha rimase in silenzio. Aveva sognato quell’incontro come una battaglia; trovò una resa.
«Sapevo. O non volevo sapere» continuò Elena. «Ho cresciuto Misha perché il mondo lo adorasse. Ho replicato quello che subivo: chiudere gli occhi e chiamare sopportazione la paura.»
«E lui dov’è?» chiese Natasha.
«Fuori di casa» disse Elena. «Dopo il tuo libro, non tollero più certe cose. Il suo romanzo ha venduto all’inizio, poi l’interesse è caduto. I critici lo hanno trovato vuoto. E quando è uscito il Diario, molti hanno capito. La sua posa da intellettuale si è sbriciolata.»
«Non volevo distruggerlo» disse Natasha. «Volevo salvarmi.»
«Lo so» annuì Elena. «Ora lui affitta una stanza e spunta contratti in uno studio legale. Gli ho offerto aiuto solo se facesse terapia. Ha rifiutato. Si sente tradito dal mondo.»
Tipico, pensò Natasha: vittima a prescindere.
«Io invece ho iniziato terapia» aggiunse Elena, per la prima volta con un sorriso che le ammorbidiva lo sguardo. «Mi sono iscritta a un corso di pittura. Lo sognavo da anni, ma mio marito lo chiamava frivolezza. Gli ho creduto troppo a lungo.»
La cucina profumava di mela e cannella. «Vuoi un tè?» chiese Elena, timida come non l’aveva mai vista. «Ho fatto la crostata che ti piaceva. Dicevo fosse una ricetta segreta.»
«Lo ricordo» sorrise Natasha. «E qual era il segreto?»
«Nessuno» rise Elena. «Era sul primo libro di cucina che mi capitò. Volevo solo sentirmi speciale. Proprio come Misha con il suo “genio”.»
Bevvero tè e parlarono di cose piccole: Alisa che cresceva, il lavoro, una mostra di impressionisti. «Posso vedere la bambina ogni tanto?» chiese Elena, quasi sussurrando. «Non ne ho diritto, ma…»
«Venite domenica» disse Natasha. «Alisa sarà felice. Ricorda ancora le vostre storie della buonanotte.»
Sulla soglia, Elena la abbracciò. Il primo abbraccio vero in anni. «Grazie. Per il libro. Per il coraggio.»
Post Scriptum
A volte basta un quaderno a quadretti a impedire il naufragio. Non importa se le parole restano chiuse in un cassetto o diventano un libro: contano perché ti restituiscono la voce. Il dolore, detto ad alta voce o sulla carta, smette di essere una stanza senza finestre.
Morale: la verità può ferire, ma il silenzio scava voragini. Non c’è perdita più grande di smettere di ascoltarsi. Ognuno merita di essere udito — prima di tutto da sé stesso.