“Alla fermata dell’autobus, una sconosciuta mi mise tra le braccia una bambina e una valigia colma di contanti — per trent’anni non ho detto una parola, ma nulla mi aveva preparata a ciò che sarebbe accaduto…”

«Prendi e scappa, capito? Subito…»

«Ma perché proprio io? Che cosa avrei di speciale?»
Sono passati trent’anni e quelle parole risuonano ancora nitide, come se l’aria le avesse conservate intatte. Quella sera ha piegato la mia vita in un’altra direzione. Oggi, guardando indietro, vedo con chiarezza ciò che allora ignoravo: nulla accade per caso, ogni filo è legato a un altro.

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Era l’inverno del 1995, uno di quelli cattivi e fangosi. La neve si scioglieva in un impasto di acqua sporca e ghiaccio, e il vento schiaffeggiava il viso con aghi freddi. Alla fermata del bus stringevo il cappotto sul petto e sognavo solo la mia poltrona e una tazza di tè forte. In negozio era stata una giornata infinita: una consegna non prevista, l’inventario fissato proprio quella sera, clienti intrattabili. Le gambe pulsavano, e in testa rimbalzavano solo numeri e lamentele.

«Marina, aspetti di nuovo l’ultimo autobus?» mi chiamò la voce della vicina, Zinaida Petrovna.

«Che alternative ho?» abbozzai un sorriso. «Per il taxi non ci sono soldi.»

«E quando Lyosha comprerà finalmente la macchina? Aveva promesso…»

«Stiamo mettendo via qualcosa, pian piano…»

Abbassai lo sguardo per nascondere l’imbarazzo. Tutti sapevano che sognavamo un figlio e che, nell’attesa, risparmiavamo per mille altre cose: l’auto, una mano di bianco all’appartamento, magari una vacanza “una volta nella vita”. Il tempo, però, scivolava via senza chiedere permesso. Zinaida salutò e si diresse verso il negozio.

Fu allora che le vidi: una donna con un cappotto liso, una bambina in braccio. Camminava su e giù come un uccello spaventato, scrutando i volti di chi arrivava. Quando i nostri sguardi si incrociarono, sentii un morso nello stomaco: nei suoi occhi c’era una disperazione lucida.

«Per favore, me la tenga un attimo,» disse all’improvviso, porgendomi la bambina. «Vado al chiosco dei giornali… torno subito.»

Non ebbi nemmeno il tempo di dire sì o no: mi ritrovai con quel corpicino tiepido tra le braccia. Era sorprendentemente leggera, quieta. Ai miei piedi comparve anche una valigia malconcia.

«Aspetti, signora…» provai a chiamarla, ma si era già confusa nella folla fradicia di pioggia.

I secondi diventarono minuti. Cinque. Dieci. Io rimasi lì, stretta alla piccola sconosciuta, paralizzata tra l’assurdo e il possibile.

«Sei impazzita!» gridò Lyosha più tardi, camminando avanti e indietro in cucina come una tigre in gabbia. «Dobbiamo chiamare la polizia. Subito.»

La bambina dormiva sul nostro divano, avvolta in una coperta sfilacciata. La valigia era lì, chiusa, come un animale che temevo di svegliare.

«Aspettiamo un attimo,» dissi, sfiorandogli la mano. «Almeno vediamo cosa c’è dentro.»

Quando scattò la serratura, restammo senza parole: mazzette di banconote, ordinate e legate da nastri bancari. In una tasca laterale, documenti: Anna Sergeyevna Volkova, due anni e due mesi. E un biglietto. Lessi le prime righe e mi mancò l’aria.

«Lyoshenka,» sussurrai, «ti ricordi di cosa abbiamo sempre parlato…»

«Non azzardarti!» fece lui, sbiancando. «Questo… questo è…»

«Un crimine?» accarezzai il foglietto, quasi a scusarmi. «E lasciare una figlia a una fermata dell’autobus cos’è, allora?»

Si lasciò cadere sullo sgabello e si coprì il volto con le mani. In quella pausa, capii che stava combattendo con qualcosa di più grande della paura: la possibilità che il destino ci stesse bussando, anche se in modo sgraziato.

«Abbiamo un lavoro stabile, un tetto sulla testa,» mormorò alla fine.

«Sì. Ma in un posto lontano nessuno farà domande.»
«Lontano dove?»

«In campagna. Un villaggio qualsiasi. Potremmo vendere casa… ricominciare.»

La mattina seguente, la piccola si svegliò e ci guardò come se ci conoscesse da sempre. Non c’era paura nei suoi occhi, solo una specie di fiducia tranquilla, contagiosa.

Lyosha sbirciò dalla cucina. Vidi sciogliersi il suo sguardo, come neve al primo sole.

«Ti va di mangiare dei pancake?» chiese avvicinandosi. «Posso farli a forma di coniglietto.»

Gli occhi di Ani—già la chiamavo così, Ani—si illuminarono.

«E faremo le orecchie lunghissime,» promise lui, strizzandomi l’occhio. «Sai, ho un amico nella regione di Tver. Dice che lì la natura è bellissima… e le case costano poco.»

Stringevo la bambina e sentivo i suoi piccoli pugni aggrapparsi al mio cardigan, decisi come un sì. A volte il destino consegna pacchi sbagliati alle fermate sbagliate. Sta a noi decidere se aprirli o restituirli al mittente.

Quella sera telefonammo all’amico di Tver. Il resto venne da sé: un annuncio venduto in fretta, scatoloni, saluti brevi. Nessuno ci fece domande che non volessimo sentire. La gente del posto era abituata a tenere lo sguardo sull’orizzonte, non dentro le valigie altrui.

Passarono anni. Imparai a intrecciare le trecce ad Ani, poi a leggere i suoi silenzi, a difenderla dai raffreddori e dalle cattiverie infantili. Lyosha diventò il re dei pancake—coniglietto, orsetto, luna—ogni domenica. A volte, davanti alla finestra, mi tornavano in mente quelle prime frasi: «Prendi e scappa.» Forse non era un ordine. Forse era un invito. Prendere ciò che arriva e correre verso la vita che non sapevamo di poter avere.

Trent’anni dopo, so con certezza che tutto è collegato. Quel freddo tagliente, una fermata fradicia, una valigia che pesava più di quanto sembrasse, un biglietto con poche parole. E soprattutto, una bambina che ci scelse con lo sguardo prima ancora che noi scegliessimo lei.

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