Abbiamo scattato questo selfie un attimo prima che lui cadesse, e ancora oggi non riesco a spiegarmi il perché.

«ABBIAMO SCATTATO QUESTO SELFIE UN ATTIMO PRIMA CHE LUI CROLLASSE — E ANCORA OGGI NON SO PERCHÉ»

Quel giorno doveva essere il nostro “reset”. Solo io e Nikita: niente notifiche, niente commissioni, zero corse. Solo un parco divertimenti, come quando ero piccola io.

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Avevamo già fatto un giro sulle tazze rotanti, divorato un churro a testa e resistito a venti minuti buoni di fila per quel trenino per bambini su cui Nikita aveva preteso di salire due volte. Continuava a vantarsi di non aver usato l’inalatore neanche una volta da stamattina.

Subito dopo il selfie, si è appoggiato a me e mi ha sussurrato all’orecchio:
— È la giornata più bella di sempre, mamma.

Ti giuro, mi si è sciolto il cuore.

La giostra stava affrontando un’altra curva lenta, lui salutava con la manina gli altri bambini e rideva. Io mi sono girata solo un secondo, giusto il tempo di infilare il telefono in borsa…

…e ho sentito il suo corpo crollare contro il mio petto.

Per un attimo ho pensato stesse scherzando, che stesse facendo finta di dormire. Ma quando l’ho chiamato per nome, non ha risposto. La testa gli pendeva, il corpo inerte.

Ho urlato. Non saprei dire come ho fatto a slacciarmi la cintura, a saltare giù dalla giostra. Ricordo solo le mie braccia che lo stringevano e la mia voce che chiedeva aiuto.

La cosa più inquietante?

Nessuno sapeva dirmi che cosa fosse successo. Niente allergia, nessun attacco d’asma, tutti gli esami puliti. Solo un crollo improvviso. I medici usavano espressioni fredde e astratte: “episodio transitorio”, “sincope non spiegata”.

Quella notte, seduta nella hall dell’ospedale con il telefono in mano, ho iniziato a scorrere le foto della giornata. Quando sono arrivata a quel selfie, ho visto qualcosa sullo sfondo.

Un uomo. Seduto da solo. E con lo sguardo fisso su di noi.

Io non ricordavo nessuno seduto lì.

Mi sono bloccata, il dito sospeso sullo schermo. A prima vista, era una foto qualsiasi: io e Nikita che sorridiamo, la giostra dietro. Ma più la guardavo, più mi saliva l’ansia. L’uomo era su una panchina, le braccia incrociate, il volto per metà nascosto dall’ombra di un albero. C’era qualcosa di stranamente familiare, ma non riuscivo a capire cosa.

E poi c’era il suo sguardo. Non era un passante distratto. Ci fissava. Me e Nikita. Con un’intensità che metteva i brividi. E io ero certa: quando ho scattato, quella panchina era vuota.

Ho provato a darmi una spiegazione. Stanchezza. Stress. I mesi difficili alle spalle. Ma quell’immagine non mi lasciava in pace.

In ospedale continuavano gli accertamenti. Una dottoressa mi ha parlato di possibili reazioni del cuore o del sistema nervoso, casi rari ma non impossibili. Nessuna certezza, solo ipotesi. E io mi sentivo impazzire.

E intanto un pensiero mi martellava: e se quell’uomo avesse a che fare con tutto questo?

Non sono mai stata il tipo da complotti. Ma in quel caso… era tutto troppo strano. Forse aveva visto qualcosa. Forse sapeva. O forse… aspettava proprio quel momento.

La mattina dopo non ce l’ho fatta più. Dovevo tornare al parco. Anche solo per dimostrare a me stessa che stavo esagerando.

Nikita dormiva profondamente, stremato ma stabile. Ho lasciato il numero ai medici e sono uscita.

Il parco, di mattina presto, era quasi vuoto. Mi sono avvicinata alla giostra, ho cercato con lo sguardo il punto in cui avevamo scattato la foto, e poi…

L’ho visto.

Seduto sulla stessa panchina.

Mi sono pietrificata. Era identico alla foto: stesso giubbotto, stessa postura. Ma stavolta, quando i nostri sguardi si sono incrociati, ho sentito chiaramente che mi seguiva con gli occhi.

Mi sono obbligata a fare un passo avanti, poi un altro. Il cuore impazzito.

— Mi scusi — sono riuscita a dire — ci conosciamo?

Non ha reagito subito. Solo dopo un paio di secondi ha girato la testa, come se mi vedesse per la prima volta. Avrà avuto poco più di quarant’anni, il viso scavato, rughe profonde intorno agli occhi. Eppure… quella sensazione di déjà-vu non mi lasciava.

Si è alzato lentamente e ha sussurrato:
— Mi dispiace. Non era mia intenzione spaventarvi.

— Chi è lei? — ho chiesto, senza più giri di parole. — L’ho vista nella foto. Sa qualcosa di mio figlio? C’entra con quello che gli è successo?

L’uomo ha esitato, poi ha distolto lo sguardo, come se stesse scegliendo con cura le parole.
— Non è come pensa. Ma forse è arrivato il momento che lei sappia la verità.

— Quale verità? — sentivo il panico risalire.

— Deve sapere chi è davvero suo figlio. È importante.

Non ho avuto il tempo di ribattere. Ho sentito una mano fermarsi sulla mia spalla. Mi sono girata di scatto: un poliziotto.

— Signora, si allontani, per favore — ha detto con tono deciso — Tutto a posto?

L’uomo ha annuito, come se la scena gli fosse fin troppo familiare, e senza più guardarmi si è allontanato tra i pochi visitatori del parco.

— Aspetti! — ho urlato — Torni indietro!

Ma non si è voltato. In quel momento ho avuto la netta sensazione di essermi lasciata sfuggire qualcosa di enorme.

— Chi era? — ho chiesto al poliziotto — Che cosa succede?

Lui ha sospirato.
— Non posso entrare nei dettagli. Le dico solo questo: è meglio che stia alla larga da lui. Quest’uomo… non è uno che vuole incontrare due volte.

Volevo chiedere di più, ma il suo sguardo mi ha zittita.

Sono tornata in macchina con la testa che ronzava. Cosa significava “sapere chi è davvero suo figlio”? Perché proprio noi? Perché proprio quel giorno?

Quella notte non ho chiuso occhio. Continuavo a sentire nella testa la stessa frase: “È ora che tu conosca la verità.”

La mattina seguente sono corsa in ospedale. Pregavo che almeno da lì arrivasse una buona notizia.

Appena ho varcato la soglia della stanza, Nikita era seduto sul letto, sveglio, gli occhi lucidi ma allegri.
— Mamma! Indovina? Hanno capito cos’ho!

Mi si è stretto lo stomaco.
— Dimmi, amore.

— Sono a posto! — ha risposto, pieno di entusiasmo — Ho avuto una… come si chiama? Sincope neurocardiogenica. Dicono anche sincope vasovagale. In pratica, il corpo si è spaventato e si è “spento” per un attimo. Mi sono solo emozionato troppo. Ora sto benissimo.

— Solo questo? — ho ripetuto, come se la parola “solo” non fosse all’altezza della paura che avevo provato.

— Sì, devo solo riposare un po’. Poi potrò tornare a fare tutto!

L’ho abbracciato forte, trattenendo le lacrime. Avevo voglia di piangere, ridere, urlare, tutto insieme.

Ma, sotto quel sollievo, qualcosa continuava a graffiarmi dentro.

L’uomo sulla panchina.

Lui non era un caso. Non era uno spettatore qualunque. Era lì. Ci osservava. E sembrava sapere in anticipo cosa sarebbe successo.

I medici hanno confermato la diagnosi, hanno spiegato procedure, tempi di recupero, controlli futuri. Tutto chiaro, tutto logico.

Eppure, per me, l’ultima tessera del mosaico erano state le sue parole: “Devi sapere chi è veramente tuo figlio.”

Non l’ho più visto. Nessuna traccia. Nessun nome. È sparito così com’era arrivato: come un’ombra ai margini di una foto.

Ma dentro di me so che quella giornata non è stata un semplice incidente di percorso.

A volte il destino ci parla in modi che non comprendiamo subito: uno sguardo sullo sfondo, un incontro fuori posto, una frase che non ti esce più dalla testa.

E ho capito una cosa: non conosci mai davvero tutta la storia finché non ti decidi a guardare anche i pezzi che fanno paura.

Se questa storia ti ha toccato, condividila con qualcuno che ha bisogno di ricordare una cosa semplice ma potente: anche nei momenti più confusi e inspiegabili, da qualche parte, c’è sempre una verità che aspetta di essere trovata.

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