Quando Anna si innamorò di un insegnante semplice e umile, i suoi genitori le imposero una scelta netta: lui oppure loro. Il giorno delle nozze, le loro sedie rimasero vuote, ma accanto a lei c’era il nonno. Dieci anni più tardi, al funerale di lui, furono proprio quei genitori lontani a implorarle il perdono — sebbene per motivi diversi da quelli che Anna immaginava.
Da bambina, nella nostra perfetta casa di campagna, i miei genitori scherzavano spesso sul fatto che un giorno avremmo vissuto in un enorme castello.
«Un giorno, Annetta», diceva papà, sistemandosi la cravatta impeccabile davanti allo specchio del corridoio, «avremo una casa così grande che ti servirà una mappa per trovare la cucina.»
Mamma rideva, un suono cristallino che sembrava risuonare nell’aria.
«E tu sposerai qualcuno che ci aiuti a orientarti, vero, tesoro?»
«Un principe!» rispondevo con entusiasmo da bambina. «Con un castello enorme e tantissimi cavalli!»
Sembrava un gioco, un sogno divertente. Ma alle superiori compresi che quelle parole nascondevano altro.
I miei genitori erano severi. Ogni loro decisione, ogni amicizia, ogni incontro doveva servire a migliorare il loro status sociale.
Mamma sceglieva le mie amicizie in base al censo delle famiglie! Non dimenticherò mai quando, con disprezzo, sbuffò mentre io invitavo a casa Vika, una compagna di classe, per un progetto di biologia.
«Frequenti proprio lei?» chiese a cena.
Alzai le spalle.
«Vika è gentile e prende voti altissimi.»
«Non è alla tua altezza», tagliò corto mamma. «Quei vestiti vecchi e quel taglio di capelli trasandato parlano chiaro, anche se è la migliore della classe.»
Sentii un dolore allo stomaco. Fu allora che capii quanto fossero stretti i loro orizzonti.
Papà non era da meno. Usava i miei eventi scolastici per tessere relazioni “utili”, ignorando le mie recite.
Ricordo la mia interpretazione della protagonista in “La gabbia di vetro” all’ultimo anno. Papà trascorse tutto lo spettacolo nel foyer, parlando di affari con i genitori degli altri ragazzi.
«Mi hai vista?» gli chiesi dopo lo spettacolo, ancora in costume.
«Certo, principessa», rispose distratto, senza distogliere lo sguardo dal telefono. «Ho sentito gli applausi. Dovevi essere splendida.»
Poi arrivò Ilya.
«Un insegnante?» mamma quasi si strozzò con lo champagne quando gliene parlai. «Anna, cara, gli insegnanti sono brave persone, ma non… insomma, capisci.»
Si guardò intorno nervosa, come temendo di essere ascoltata.
Capivo bene il sottinteso, ma per la prima volta non me ne importava nulla.
Ilya era diverso da tutti gli altri. Mentre i ragazzi parlavano di ville e auto di lusso, lui raccontava con passione del suo sogno: insegnare ai bambini.
Quando mi chiese di sposarlo, non fu in un ristorante elegante né con un anello prezioso. Si inginocchiò nel giardino dove ci eravamo conosciuti e mi porse l’anello di sua nonna.
La pietra era piccola, ma alla luce sembrava racchiudere tutte le stelle del cielo.
«Non posso offrirti un palazzo», disse con voce tremante, «ma ti prometto una casa piena d’amore.»
Risposi “sì” prima che finisse di parlare.
I miei genitori reagirono con gelo.
«Ma non quel maestro!» sbottò papà come se fosse un delinquente. «Come pensa di mantenerti? Noi? Stai buttando via la tua vita!»
«Lui mi dà già tutto ciò che mi serve», risposi. «È gentile, mi fa sorridere e…»
«Te lo proibisco!» urlò papà.
«Se lo sposi», aggiunse mamma con voce tagliente come vetro, «puoi dimenticarti di noi. Lui o noi.»
Rimasi senza parole.
«Non potete essere seri…»
«Lui o noi», ripeté papà, impassibile.
Sapevo che non avrebbero mai accettato Ilya, ma non mi aspettavo tanta durezza. Guardandoli negli occhi, capii che non c’era via di mezzo.
«Vi manderò l’invito», dissi, «così, se cambierete idea…» e me ne andai.
Il matrimonio fu semplice ma perfetto, nonostante due sedie vuote in prima fila. Ma accanto a me c’era mio nonno.
«Hai scelto la vera ricchezza, piccola», mi sussurrò mentre mi accompagnava all’altare. «L’amore vale più di ogni soldo.»
La vita non fu facile. Gli stipendi di Ilya e il mio lavoro freelance bastavano a malapena. Vivevamo in un piccolo monolocale con il riscaldamento incostante. Ma la nostra casa era piena di risate, soprattutto dopo la nascita di Sonia.
Mio nonno era il nostro punto di forza.
«Sai cos’è la vera ricchezza, cara?» chiese un giorno a Sonia.
«Come mamma e papà mi amano?»
«Esatto», sorrise.
Quando il nonno morì, mi sentii persa.
Al suo funerale vidi i miei genitori.
«Anna, tesoro», disse mamma stringendomi le mani, «siamo state sciocche… perdonaci.»
Volevo crederle, ma allora si avvicinò zia Olga.
«Non darle retta», sussurrò. «Nel testamento c’era una clausola: se non si fosse riconciliata con te, la loro eredità sarebbe andata in beneficenza.»
La verità mi colpì come un fulmine. Le loro lacrime non erano per me. Piangevano per il denaro.
Presi il microfono.
«Mio nonno mi ha insegnato cos’è la vera ricchezza. È un marito che aiuta i figli senza chiedere nulla. È una figlia che condivide la colazione con un compagno di scuola. È l’amore senza condizioni.»
Poi scoprii che il nonno mi aveva lasciato un’eredità — libera da ogni vincolo. Abbastanza per garantire un futuro sereno a Sonia.
Ai miei genitori non restò nulla. Tutto fu devoluto a fondi educativi.
Immaginai il sorriso soddisfatto di mio nonno e non potei fare a meno di sorridere anch’io.
Quella sera, seduta sul divano tra Ilya e Sonia, compresi una cosa: scegliendo l’amore, ero diventata la persona più ricca del mondo.