Valentina Petrovna si svegliò alle prime luci dell’alba, destata dal familiare cigolio della vecchia sveglia e dalle lame di luce dorata che filtravano dalla finestra. Fuori, un’insolita nevicata di inizio marzo aveva ricoperto il tetto del granaio: sembrava spolverato di zucchero a velo. Si infilò la consunta vestaglia imbottita, calzò i valenki ormai logori e si diresse spedita in cucina. Durante la notte la stufa si era spenta e occorreva ravvivare il fuoco. La legna prese subito a crepitare, il bollitore iniziò a fischiare, ma Valentina sentì un suono diverso provenire da fuori: un colpo di tosse, sommesso, insistente.
Aprì la porta e vide che non si era sbagliata. Sulla panca sotto la tettoia, rannicchiato in una giacchetta troppo sottile, sedeva un ragazzino. Abbracciava le ginocchia, le dita viola dal freddo, gli occhi gonfi e arrossati. Da settimane viveva sotto il vecchio ponte ai margini del paese, dormendo in un tubo di cemento e rovistando tra i rifiuti. La gente mormorava che fosse un ladruncolo, ma Valentina sapeva che non aveva mai rubato: era solo sporco e infelice, non cattivo.
Alzò la mano per invitarlo:
— Hai freddo? Vieni dentro.
Il ragazzino sussultò.
— Io… solo per poco.
— In casa c’è caldo. Non aver paura.
Si alzò esitante, come aspettandosi un tranello, tirò su il cappuccio e varcò la soglia. Il tepore e il profumo del pane fresco gli fecero socchiudere gli occhi.
Valentina posò sul tavolo una scodella di ščì preparato il giorno prima e un bel pezzo di pane di segale.
— Prima lava il viso, — disse porgendogli bacinella e sapone.
Obbedì, togliendosi la giacca logora. Sotto, una maglietta strappata e braccia magre segnate dai lividi.
— Come ti chiami? — domandò lei, versandogli acqua tiepida.
— Egor.
— E il cognome?
— È brutto…
— Ma va! Una mia amica da ragazza si chiamava Puzo e si è sposata lo stesso. Su, dimmi.
— Toporkov.
— Bel cognome! Sembra il colpo d’ascia sul legno.
Per la prima volta, Egor sorrise. Poi soffiò sulle mani per scaldarle e chiese con voce incerta:
— Zia Valja, perché non hai paura di me?
— Ho più paura di una casa vuota, — rispose lei.
Valentina aveva sessantadue anni. Il marito era morto d’infarto dieci anni prima, il figlio lavorava come geologo lontano, in Čukotka, e della nipotina vedeva solo le foto che profumavano più di nostalgia che di talco. La casa risuonava di silenzi. Fece sedere il ragazzo vicino alla stufa e tagliò altro pane.
I vicini spettegolavano senza pietà:
— Perché perde tempo con quell’accattone? — sussurrava Man’ka, la bottegaia.
— Le mangerà tutta la pensione, — aggiungeva Efim, il guardiano del kolchoz.
— Sarà roba di qualche setta, — ridacchiava la commessa.
Valentina non ci badava. Ogni giorno aspettava Egor al cancello: lui arrivava timido, a volte all’alba, altre verso mezzogiorno. Sempre con lo stesso berretto sudicio, scarponi enormi e un laccio di gomma per cintura. Mangiava, spazzava il cortile, sistemava il pollaio, portava l’acqua.
Un giorno lei gli chiese:
— Da dove vieni?
— Dalla città. Il patrigno mi ha buttato fuori, mamma ha iniziato a bere.
— Ci tornerai?
— Non mi vogliono.
Valentina annuì. Tornare non aveva senso: bisognava aiutarlo lì.
Con la primavera, il sole sciolse il ghiaccio sui tetti. Valentina scovò in soffitta la vecchia giubba militare del marito, la lavò e la stese al vento. Quando Egor arrivò, gliela porse:
— Tienila, ti farà comodo.
Lui sfiorò il tessuto come temendo di scottarsi.
— Non gratis, — disse. — Posso smontare i mattoni del vecchio club e impilarli nel magazzino.
Così nacque la loro amicizia fatta di gesti e lavoro. La mattina Valentina gli assegnava un compito; Egor lavorava, poi studiava. Lei, ex insegnante di disegno tecnico, gli portò vecchi quaderni. Il ragazzo tracciava lettere assetato di imparare, risolveva problemi, disegnava trattori.
— Hai la testa sveglia, — lo lodava Valentina. — Farai strada.
— È tardi ormai.
— Non è mai tardi. Il mondo va avanti grazie alla volontà, non ai documenti.
L’estate portò nuove malelingue:
— Dicono che voglia adottarlo!
— E con che soldi?
— Bisogna chiamare la polizia!
L’agente di zona, Vova, passò a bere il tè. Sfogliò i quaderni e annuì:
— Studia bene. Servono solo i documenti, che non risulti ricercato.
Quella notte Egor sussurrò:
— Non voglio finire in orfanotrofio.
— Non ci finirai, — lo rassicurò Valentina, accarezzandogli i capelli. — È solo burocrazia, per proteggerti.
In autunno, un fulmine incendiò il fienile della fattoria. Egor corse a dare l’allarme, suonò l’antica campana, svegliando l’intero villaggio. Nella confusione trascinò fuori Alexej ferito e liberò un puledro tra le fiamme. All’alba la fattoria era salva.
— Senza di te, avremmo perso tutto, — disse il capo, stringendogli la mano. — Sei un eroe.
— Non serve a me, — borbottò Egor.
— Serve eccome, — replicò Valentina. — Per rifarti il passaporto.
Con la sua ostinazione, Valentina ottenne un documento provvisorio. L’inverno non fece più paura: Egor frequentava i corsi serali da trattorista, aiutava in fattoria, il sindaco gli regalò una giacca nuova. La gente non lo chiamava più “sporco”, ma “il nostro salvatore”. Perfino Man’ka, la bottegaia, un giorno le disse:
— Sono stata meschina. Quel ragazzo è in gamba. Vuoi che ti porti un sacco di farina? Costa meno del pane.
Col passare del tempo, Egor ottenne anche il passaporto ufficiale.
— Adesso sono qualcuno? — chiese davanti allo specchio.
— Lo sei da un pezzo, — rispose Valentina. — Il foglio è solo una formalità.
Un anno dopo, un altro incendio minacciò il villaggio. Egor, ormai vigile volontario con casco e giubba, guidò la squadra per spegnere le fiamme. E quella sera, guardando Valentina tra i fari delle auto, capì che il suo posto era lì, in quel villaggio che un tempo voleva scacciarlo.
La gente raccontava a tutti: «C’era un ragazzino sporco, lo cacciavamo, e lui ha salvato il paese due volte». Valentina sorrideva in silenzio: sapeva che nessun fuoco si spegne senza una scintilla di bontà. E se non la si soffoca, quella scintilla diventa una fiamma che scalda anche i cuori più duri.