Quando avevo quindici anni, galleggiavamo a malapena. Un monolocale scrostato in un quartiere ruvido, i muri sottili come carta e la finestra che fischiava al primo soffio di vento. Papà teneva insieme due lavori e notti corte; mamma accettava qualsiasi incarico: bambini da guardare, scale da lucidare, orli da rifare per i vicini. Eppure, nel bilancio di casa, una voce non mancava mai: “la gentilezza torna”.
Una sera, rientrando con la nostra sporta mezza vuota, lo vedemmo. Era seduto davanti alla saracinesca abbassata di una panetteria, il marciapiede freddo che gli attraversava le ossa. Avrà avuto diciassette anni, forse meno. La giacca sfilacciata, le mani annerite, gli occhi scavati di stanchezza.
Mamma, che aveva un radar per chi stava peggio, diede una gomitata a papà.
— Guardalo, Arman… è solo un ragazzo — sussurrò.
Papà guardò la borsa con il pane e due mele. — Non abbiamo abbastanza nemmeno per noi, Nora.
— Abbiamo comunque più di lui — rispose lei, già abbassandosi accanto al ragazzo.
— Hai fame? — domandò piano.
Lui esitò, poi annuì. Disse di chiamarsi Daniel. Da mesi dormiva dove capitava, scappato da una casa dove la paura era l’unica regola. Niente amici, nessun posto sicuro.
Non ci fu discussione. Tornò a casa con noi.
Il nostro soggiorno minuscolo si restringe ancora oggi nei miei ricordi. Gli stendemmo un materassino vicino al termosifone capriccioso, una coperta rattoppata da mamma e un piatto di zuppa allungata con acqua. La matematica del poco non tornava più: ora eravamo quattro a dividere tre.
Io ero furioso.
— Perché lo facciamo? — sibilai a mamma quella notte. — Non abbiamo nemmeno da riempire i piatti.
Lei sospirò, ma non si irrigidì. — Perché un giorno capirai che la gentilezza conta più del comfort.
Le settimane si incastrarono una nell’altra. Daniel parlava poco, ma si dava da fare. Seguiva papà nei lavoretti, portava su scatoloni, riparava serrature malandate; con mamma imparò a cucire dritto, a infilare l’ago senza tremare. Il buio negli occhi, però, restava.
Capimmo da dove veniva una notte tesa come un filo. Bussarono forte, quasi a spaccare la porta. Papà aprì appena e un uomo grande, l’alito di alcol e rabbia, spinse dentro.
— Dov’è? — ringhiò, e lo sguardo inchiodò Daniel al muro.
— Papà — mormorò Daniel, impallidendo.
L’uomo gli artigliò il braccio.
— Credevi di scappare, ingrato?
— Lascialo — disse papà. Non urlò, ma la sua voce riempì la stanza.
— È mio figlio! — sputò l’uomo.
— Hai smesso di esserlo il giorno in cui l’hai buttato in strada — ribatté papà.
Il silenzio fece rumore. L’uomo tirò fuori un coltello a serramanico. Mamma si portò una mano alla bocca; sentii il sangue martellarmi alle tempie.
— Spostati — sibilò.
Non avevo mai visto mio padre aver paura. Quella notte, se l’aveva, la ripiegò in tasca. Si piazzò tra Daniel e la lama, pugni stretti.
— Per portarlo via, dovrai passare sopra di me.
Un istante lungo come un chilometro. Poi lo sguardo di papà, fermo e pulito, incrinò qualcosa nell’altro. Forse capì che non c’era più nulla da vincere. Forse il vino gli sciolse il braccio. Abbassò il coltello, rise male e barcollò fuori.
— Tornerà da me — sputò, senza crederci fino in fondo.
Daniel crollò sul divano, tremando. Mamma lo strinse.
— Qui non devi più avere paura — gli sussurrò tra i capelli.
La vita non diventò più semplice. Ma cambiò direzione. Daniel, che fino ad allora parlava con monosillabi e sguardi bassi, cominciò a riemergere: lavorava, scherzava ogni tanto, la sera si sedeva accanto a me a studiare. Un anno dopo arrivò una borsa di studio. Scoprimmo che la sua testa correva veloce: finì all’università con una borsa di tela e un filo nuovo che lo teneva legato a noi, non di sangue ma di scelta.
Anche per noi le cose presero un altro ritmo. Papà ottenne un impiego più stabile; mamma aprì un piccolo laboratorio di sartoria con due macchine lucide e i gessetti sempre consumati; io, alla fine, ci arrivai pure all’università. Non smettemmo di sentire Daniel: telefonate, cartoline, ritorni brevi e pieni.
Un giorno il bussare tornò. Questa volta discreto. Aprimmo: Daniel, elegante, un sorriso che non avevo mai visto così spazioso, una busta in mano.
— Questo è per voi — disse, porgendola ai miei genitori.
Dentro c’era un atto di proprietà. Una casa vera, con stanze che respiravano e finestre che non fischiavano.
— Non ho dimenticato — disse, e gli tremò un attimo la voce. — Adesso tocca a me.
Mamma pianse senza nascondersi. Papà, che teneva stretti perfino gli abbracci, lo strinse forte come quella notte davanti alla lama. Io, dieci anni dopo quel corridoio troppo stretto, capii tutto quello che allora mi era sembrato assurdo: il comfort è un cuscino, la gentilezza è una porta. E quando la apri, a volte torna indietro portando con sé una casa intera.