«Quale cena, scusa?» chiese Annabeth, sollevando appena un sopracciglio. «Mi hai dato dei soldi per prepararla? No, vero? E allora perché dovrei esserne responsabile io?»
Il viso di Levan si colorò di rosso. «E adesso che dovrei fare, secondo te? Girare per casa a stomaco vuoto?»
«Ovviamente no», rispose Annabeth, calma, quasi gentile. «Puoi uscire, andare al supermercato, comprare qualcosa e cucinartela. Oppure ordinare da mangiare. I soldi non ti mancano, in fondo.»
«Ah, quindi stai facendo sciopero?» esplose lui, rialzando la voce. «Ti rifiuti di fare i tuoi doveri di moglie?»
La pazienza di Annabeth si spezzò di colpo. Ne aveva davvero abbastanza. «Sono stufa di essere la mucca da latte di questa famiglia! Perché devo caricarmi tutto sulle spalle io?»
Levan gettò la valigetta sul tavolo e indicò con un gesto irritato il nuovo robot da cucina. «Ancora spese inutili!»
Annabeth lo guardò senza parole. La cena era quasi pronta, la casa in ordine, il bucato fatto – come ogni giorno, dopo una giornata intera di lavoro.
«Lëva, lo desideravo da una vita», mormorò, abbassando lo sguardo. «Era in super offerta, e l’ho comprato con il mio stipendio…»
«Con il tuo stipendio!» la interruppe lui, cominciando a camminare nervoso avanti e indietro per la cucina. «E alla fine cosa rimane? Spiccioli! Chi paga l’affitto? Io. Chi paga l’auto? Io. Chi copre le spese serie? Io!»
Annabeth abbassò la fiamma del fornello e si asciugò le mani sul grembiule. Il profumo del sugo riempiva la stanza, ma lo stomaco le si era chiuso.
«Anche io lavoro», disse più piano. «A tempo pieno, giusto per chiarire. Con il mio stipendio riempiamo il frigorifero. E poi io cucino, pulisco, lavo, stiro…»
«Sì, sì, sei un’eroina, lo so», ribatté Levan, sbattendo lo sportello del pensile mentre prendeva una tazza. «Sai che c’è? Mi sono rotto. D’ora in poi sarà tutto equo: dividiamo le spese a metà, visto che te la spassi alle mie spalle.»
«Che vorresti dire?» domandò Annabeth, incrociando le braccia.
«Quello che ho detto. Siamo moderni? Bene. Allora fifty-fifty. Bollette, telefono, spese comuni: tutto diviso a metà. È giusto così, non che io mi sobbarchi sempre tutto!»
Annabeth aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. Non era giustizia, era controllo. Sospirò. «Va bene, Levan. Vuoi la parità fifty-fifty? Avrai la parità fifty-fifty.»
La mattina dopo Annabeth si svegliò prima della sveglia. Levan dormiva ancora, girato verso il muro. I pensieri della sera precedente le ronzavano in testa. Scivolò fuori dal letto e andò in cucina.
In quattro anni di matrimonio avevano trovato un “equilibrio” che adesso le sembrava tutto fuorché equo. Sì, Levan guadagnava più di lei. All’inizio, quando era ancora studentessa, aveva senso che lui sostenesse le spese mentre lei badava alla casa. Ma poi anche lei aveva iniziato a lavorare. Prima part-time, poi a tempo pieno. E i lavori in casa? Sempre tutti sulle sue mani.
Aprì il portatile e controllò i movimenti sul conto: stipendio, bollette, spesa, piccoli acquisti quotidiani… Quasi tutto ciò che guadagnava finiva nel bilancio familiare. E il resto del suo contributo? I pranzi, le cene, le pulizie, il bucato, l’organizzazione… tutto invisibile, come se non avesse valore.
Sorseggiando il tè, ripensò al loro primo incontro. Allora Levan la trattava come una regina, giurava che l’avrebbe protetta per sempre. E adesso? La chiamava “mucca da mungere”. Certi uomini trasformano l’amore in contabilità con una rapidità impressionante.
Più tardi, in ufficio, Levan raccontava tronfio al collega Irish: «Ieri le ho messo i puntini sulle i. Le ho detto che basta, vivremo come una coppia moderna: fifty-fifty.» Si appoggiò allo schienale, soddisfatto di sé.
Irish lo fissò con interesse. «E lei?» chiese. «Che ha detto?»
«Non ci crederai: ha accettato subito!» Levan sorrise, compiaciuto. «Neanche una scenata.»
«Davvero?» Irish sollevò un sopracciglio. «Così, senza discutere?»
«Già. Finalmente ha capito che ho ragione. Dov’è il problema nell’essere giusti?»
«Ognuno ha la sua idea di giustizia», commentò Irish, tornando al computer. «Mia zia dice sempre: “Stai attento a ciò che desideri, potresti ottenerlo davvero.”»
Levan aggrottò la fronte. «E cioè?»
Irish fece un mezzo sorriso. «Non ne ho la minima idea, ma suona profondo, no?»
Levan scoppiò a ridere, scacciando la lieve inquietudine che lo sfiorava. Andrà tutto liscio, si disse. Annabeth è ragionevole.
Nel pomeriggio, Annabeth camminava tra gli scaffali del supermercato con un cestino al braccio. Prima avrebbe riempito il carrello per due, pensando a quello che piaceva a Levan. Quella volta, invece, nel cestino c’erano solo uno yogurt, un pezzo di formaggio, pane e un petto di pollo. Passò davanti al banco del pesce senza fermarsi: il filetto preferito di Levan rimase lì, sul ghiaccio.
La sera in casa calò un silenzio insolito. Annabeth cucinò il suo petto di pollo con le verdure, mangiò tranquilla, lavò il piatto, mise su una lavatrice e poi si accasciò sul divano con il tablet. Da tempo aveva tre serie iniziate e mai finite. Quella notte decise che fosse un buon momento per recuperarle.
Il telefono vibrò: un messaggio di Levan.
«Arrivo tra mezz’ora. Cosa c’è per cena?»
Annabeth lesse, sorrise appena e lasciò il telefono a pancia in giù sul tavolino.
Quando la chiave girò nella serratura, Levan entrò, stanco morto. Si aspettava il solito profumo di cena in tavola. «Anyut, sono a casa!» gridò, appendendo il cappotto.
Silenzio.
In cucina trovò solo ordine e pulizia. Nessuna pentola, nessun piatto, nessun odore di cibo. Aprì il frigorifero: era mezzo vuoto. Yogurt, un po’ di formaggio, qualche verdura.
«Annabeth!» chiamò, infastidito, avviandosi verso il salotto.
La vide sul divano, con le cuffie, immersa nel tablet. Lei se ne accorse, si tolse un auricolare.
«Oh, ciao. Sei già tornato?»
«Sì. E… la cena?» Levan si guardò attorno, come se una bistecca potesse saltare fuori dal divano.
Annabeth lo fissò, genuinamente sorpresa. «Che cena?» domandò. «Non mi hai dato i soldi per la tua metà, ricordi? Qual è il problema?»
Levan spalancò gli occhi. «Stai scherzando? Dopo una giornata d’inferno torno a casa e non hai cucinato niente?»
«Non mi hai dato la tua quota per la cena», ribatté lei, tranquilla, posando anche l’altro auricolare. «Hai voluto fifty-fifty. Io ho comprato il mio cibo con i miei soldi, ho cucinato per me e ho mangiato. Ho solo seguito l’accordo.»
«Ma…» Levan restò lì, come se qualcuno gli avesse tolto il pavimento da sotto i piedi.
«È uno sciopero, allora?» riuscì infine a dire. «Ti rifiuti di fare la moglie?»
Annabeth appoggiò il tablet sul cuscino e si voltò verso di lui. «Doveri di moglie?» ripeté piano, ma con gli occhi duri. «Li ho svolti tutti, fino a ieri. Poi tu hai deciso che dobbiamo dividere tutto a metà, e ho cominciato a chiedermi perché sei così ingiusto con me.»
«Ingiusto io?!» balbettò lui.
«Sì, tu», lo interruppe. «Finora con il tuo stipendio abbiamo pagato le spese grosse, e con il mio abbiamo riempito la cucina e coperto il resto. Io, oltre a questo, cucino, pulisco, stiro, faccio il bucato, organizzo tutto. Tutte le sere, dopo l’ufficio. E nei weekend? Pulizie generali, preparazione dei pasti per i giorni successivi. Ti ricordi domenica scorsa? Tre ore in cucina e tre a rassettare. Sei ore di lavoro nel mio unico giorno libero.»
Levan non rispose. Ogni parola gli pesava addosso.
«Vuoi davvero fifty-fifty?» continuò Annabeth. «Benissimo. Allora fifty-fifty su tutto. Non solo i soldi: anche le faccende. Cucinare a turno o ciascuno per sé. Le pulizie ce le dividiamo. Il bucato ognuno se lo fa da solo. Ti sta bene?»
Levan si schiarì la voce. «Io… non so nemmeno come si accenda la lavatrice.»
Annabeth abbozzò un sorriso. «Te lo insegno. Non è magia.»
«E comunque, se non cucini e non pulisci… a cosa mi servi?» gli scappò. E subito si rese conto di averla detta grossa.
Annabeth lo fissò a lungo, in silenzio. Poi si alzò, con calma.
«Provvedere alla famiglia è dovere di un uomo», disse lentamente. «Io non ti ho mai chiesto “a cosa mi servi?”, anche se non sei mai stato questo gran “sostegno”, visto che devo lavorare anch’io. E ora rinunci pure a quel dovere.» Fece una piccola pausa. «Ma non ti faccio quella domanda, perché io credevo fossimo una famiglia.»
La stanza si riempì di un silenzio pesante. Levan abbassò lo sguardo, sentendo la rabbia dissolversi in vergogna. Annabeth restava in piedi, dritta, aspettando una risposta.
«Mi dispiace», mormorò infine. «Ho esagerato. Torniamo come prima, okay?»
Pensava che lei si sarebbe sciolta, che avrebbe sorriso, magari lo avrebbe abbracciato e sarebbe corsa ai fornelli. Ma Annabeth scosse piano la testa.
«Perché dovrei?» chiese, davvero curiosa. «Prima avrei preparato da mangiare per te, stirato le tue camicie, lavato i piatti. Ora ho già cenato, ho sistemato tutto e stavo per guardarmi un altro episodio. È molto più comodo per me così, sai?»
Detto questo, si rimise le cuffie, riprese il tablet e tornò alla sua serie. Levan rimase immobile nel corridoio, con la bocca socchiusa e una sola, amara consapevolezza che cominciava a farsi strada: aveva chiesto la “parità”… senza avere idea del suo vero prezzo.